Con la rivoluzione industriale, l’architettura esige nuove tecniche e una diversa enunciazione formale. L’architettura sfrutta, in qualità di materia espressiva, anche le strutture portanti: viene perciò riformulata secondo rinnovate esigenze dettate dall’utilizzo di nuovi materiali: il ferro esige un complesso strutturale leggero, dinamico, chiaro ed esplicito sul piano delle sue qualità formali;
il cemento sottrae la forma architettonica alla facciata edonistica classicheggiante, affermando un nuovo modo di concepire la forma: non più delimitata da un equilibrio statico, bensì da una forma conforme a un movimento che si pronunci persino con l’ènfasi d’una visione di ordine sensoriale; il vetro smaterializza il muro in mattone: il muro e le pareti trasparenti portano a incanalare la luce esterna all’interno, in svariate direzioni; all’interno di un edificio in vetro, si ha la sensazione di entrare a contatto con l’esterno; i muri in vetro consentono all’edificio di abbattere la limitazione del proprio peso e della propria misura; l’edificio vive e respira sotto la tensione costante di effetti luminosi in continue variazioni.
Il Crystal Palace, costruito a Londra da Joseph Paxton nel 1851, in occasione dell’Esposizione Universale, la cui compagine è strutturata da soli pilastri metallici di sostegno, utili a reggere un’intera struttura in vetro, ne è un esempio -per l’epoca- straordinariamente inedito, che concilia la progettazione ingegneristica (tutta votata alla funzionalità) alla predominante trasparenza e leggerezza del vetro, che abbatte la differenziazione spaziale fra interno ed esterno, ravvivando uno spazio sì funzionale ma anche sinonimo di lirismo gotico.
L’Ottocento è infatti l’epoca in cui l’architettura oscilla fra funzionalità tecnologica e libertà progettuale, quest’ultima però non ancora unita alla ricerca di nuove forme trasgressive, libere di fondarsi su un’esperienza formale sensistica, cioè su un geometrismo classico funzionalizzato e su invenzioni tradotte in incantamenti densi di forme relazionate al desiderio di un totale cambiamento.
L’architettura ottocentesca si rifà sia all’equilibrata conformazione plastica dell’Apollo, sia ai convulsi movimenti del Laocoonte; sia alla equilibrata prevedibilità geometrico-plastica dell’Antinoo, sia alla relativizzazione di forme progettualmente irrazionalizzate dall’ossianico; sia all’eclettismo, sia al Gothic revival. Inoltre il modello ellenico convive con quello etrusco, quello egizio con quello rinascimentale, quello dorico con quello gotico, ecc.
Si ha così che «dopo la fine dell’età barocca, troviamo il periodo neoclassico e l’eclettismo ottocentesco, con tutti i suoi numerosi revivals in cui il più fradicio romanticismo letterario va a nozze con la scienza tecnologica».
Il linguaggio stilistico, adottato alla fine dell’Ottocento in tutta Europa, traeva ancora la propria concezione architettonica, per la costruzione di qualsivoglia edificio, dal passato. La limitazione all’estetica classica svotava -come risulta nella maggior parte dei casi- l’architettura di funzionalità. Non si concepiva l’edificio secondo una specifica utilità, ma secondo forme stilistiche che, recuperate prevalentemente dallo stile greco-romano, rispondessero a un certo grado di monumentalità atta a potenziare simbolicamente un’architettura scenografica che avvalorasse il tradizionalismo e l’accademismo: l’exemplum del passato doveva continuare a conciliare l’architettura del presente con la staticità classica; siamo perciò ancora al recupero del frontone e del tímpano, delle colonne in stile dorico e ionico, dei fregi, dei cornicioni, degli adornamenti scolpiti a mo’ di acrotèri.
Rifarsi agli «stili storici» significava fermare il tempo, contrastare il caos storico del presente con edifici che assicurassero la continuità con una equilibrata e monologante architettura i cui elementi fossero ripescati dal passato. Si andava incontro all’esigenza multiforme dell’attualità tutt’al più con l’eclettismo, cioè col congegnare e mettere insieme più «stili storici».
Charles Garnier, nell’Opéra di Parigi (1861-75) combina esemplarmente elementi architettonici presi in prestito da Bramante e da Michelangelo:
John Summerson, Il linguaggio classico della architettura. Einaudi, Torino 1991, p.64Le colonne abbinate sopra un podio ad archi derivano da Bramante, con qualche reminiscenza del colonnato del Louvre; l’ordine secondario è invenzione di Michelangelo al Campidoglio; i padiglioni terminali ricordano il Louvre di Pierre Lescot.
L’architettura si chiudeva nella memoria retrospettiva e nella rappresentazione di un presente che si compiaceva di attingere al passato forme e tematiche simboliche, a coronamento di una ideologia borghese non ancora pronta a innescare una innovazione radicale, sia pure a partire da una sensibilità e da un sentimento romantici. L’idealismo classicista mirava al trionfo di uno spazio cubico divinizzato. Si conseguiva lo spazio architettonico non in continuità coi profondi flussi del presente, ma da una eredità che lo mantenesse in una monumentalità caratterizzata da un decorativismo che riportasse l’idealità simmetrica dell’uomo-dio a uno stile pseudoimperiale.
La forma del passato (l’unica ritenuta in salute) viene ripescata, utilizzata e protetta come reliquia.
L’architettura titanica è sempre un riflesso di Dio, impensabile sostituirla a quella che, nell’andare incontro alla cadúca necessità dell’uomo contemporaneizzato, non fosse in grado di idealizzare, come i Greci, persino la malattia:
I greci cioè niente possedevano meno che una salute quadrata; il loro segreto era di venerare come Dio anche la malattia, purché avesse potenza.
L’armonia classica è difatti il simbolo di una «salute quadrata».
La simmetria risalta la quadratura equilibrata, studiata per ottenere un sano accordo a una forma architettonica che riposi in salute, fondamento di una idealizzazione dell’artificio umano.
Prende perciò piede il Neorinascimento: la sua semplice ed efficace ritmicità spaziale, nonché decorativa; la razionalizzazione degli spazi e delle facciate, simmetricamente disposte secondo un gusto classico che
Bruno Zevi, Saper vedere… p.95riesuma il gusto per le scansioni modulari,
applicate a valorizzare un andamento ornamentale scansionato da paraste, riquadri, cornici, ecc., dànno vita a edifici ad uso sociale che rispondono comunque (sia pure entro un certo limite) alla funzionalità cui sono destinati.
Il recupero del classicismo, nell’architettura di fine Ottocento, si rifà in parte, per quanto concerne soprattutto l’urbanizzazione della città, legittimata da una morale etica che intendeva agire per una corretta ed efficace amministrazione delle effettive esigenze della collettività, al programma del Neoclassicismo settecentesco che poneva fiduciosamente l’edificio, così pure il piano urbanistico della città, al servizio della cittadinanza, favorendo un’architettura più aderente alla collaborazione sociale.
L’architettura illuminista, essendo all’insegna dei valori sociali, non poteva proseguire sulla concezione estetica e morale dell’ancien régime, preoccupata a rimarcare i suoi parassitari privilegi con lo sfoggio di un’architettura sostenuta dalla smoderatezza ornamentale, dall’ostentazione del lusso dispendioso, dallo scialo del pomposo, dall’impudente fastosità del ridondamento riempitivo e della superflua sopraccedenza, strabocchevoli di motivi pleonastici e rococò, inzeppati di fumosi e stonati preziosismi spagnoleschi.
Il recupero del classicismo, nell’architettura settecentesca, sottolineava l’urgenza di interloquire con la cittadinanza, tramite il rispetto delle esigenze di crescita e progresso sociali. Tutto ciò si rifà a una concezione di laicità a cui si rifaceva la libertà di pensiero dei philosophes illuministi, intimando a pretesto che il sapere doveva servire a migliorare la società e a promuovere la laicizzazione di un pluralismo culturale e sociale, diffondendo una ideologia contro l’intolleranza.
A ragione di ciò, la città si apre al rispetto delle esigenze di tutti. Pertanto l’impostazione muraria, che divideva la città dal resto (dal fuori di sé), non intende più determinare un distacco dalle riforme, e da un moderno assetto urbanistico confacevole a un nuovo ordinamento sociale. Si abbattono le mura di cinta e con esse il simbolo di fortificazione e di cittadella a difesa della passata ideologia aristocratica: alla passività ristagnante dell’ancien régime subentra l’attivismo progressivo della borghesia; non più la discriminazione di classe: si insedia il desiderio di sostituirla con la libertà di essere col pluralismo indotto dalla diversità; al dispotismo, che caratterizza l’autoritarismo di una ideologia chiusa in dogmatismi aristocratici che non rispettano le idee altrui, succede la fiducia -come mezzo di progresso sociale- nel pluralismo dialettico, dettato dalla complessità di una situazione storica votata ormai (grazie già alla rivoluzione francese) agli inarrestabili cambiamenti tecnologici e sociali.
La città deve divenire insomma il luogo entro cui il cittadino individua, accetta ed esplora la propria identità insieme a quella degli altri.
Pur partendo da queste premesse, l’architettura dell’Ottocento
Bruno Zevi, Saper vedere… p.90dal punto di vista degli spazi interni… presenta variazioni di gusto, non mai nuove concezioni. È un’epoca di mediocrità inventiva e di sterilità poetica.
Gli interni, adattati al gusto borghese della committenza, visualizzano spazi non ancora adeguati a specifiche funzionalità, né tantomeno a una liricità formale campeggiata da proposizioni fluidamente libere di rispondere, con nuovi stili, a una potenza espressiva che fosse sorprendentemente tesa verso un’estetica immaginifica, e lontana dall’intonazione di quel tipo di prosopopea formale atta solo a convertire l’architettura in un atteggiamento di autorità.
E che dire dello stilismo applicato ai villini?
Il villino borghese, che è uno dei punti principali del programma edilizio della fine dell’Ottocento e del principio del nostro secolo, rappresenta nella sua generalità il totale fallimento dello spazio interno e perciò dell’architettura. Esso non è altro che la riduzione in scala del palazzo classico monumentale. Gli antichi grandiosi ambienti statici diventano cubetti staticamente giustapposti, ma senza grandiosità; e se l’edificio dell’ultimo Rinascimento poteva talvolta peccare di rettorica, il villino è sempre striminzito, mutilato, meschino, chiuso, gretto. Abbia finestre goticizzanti o romanicheggianti, si adorni di un portichetto con cariatidi greche o con colonne tortili barocche, appaia diroccato, arcaico o mistico di guglie gotiche, è quasi sempre una larva: le differenze stilistiche riguardano le decorazioni che variano col caotico variare dei movimenti romantici o con le preferenze frammentistiche del cliente, prontamente accontentato dall’architetto che tutto sa fare, o nulla.
In risposta a questa architettura, usurata dai viziosi gusti estetici della committenza e dalla piatta applicazione degli “stili storici” e, in risposta al pericolo di cadere ai piedi di un’architettura troppo standardizzata, a causa di uno schematismo tecnologico dettato da un progresso che andava sempre più industrializzandosi, l’entrata in scena del Liberty spazza via sia il Neoclassicismo, sia l’Eclettismo, sia la minaccia dell’idolum di un’architettura orientata all’irriducibile estetica del modello industrializzato.
Il Liberty rovescia la retorica ampollosa e declamatoria della monumentalità, nominando (in contrasto a tutto ciò) la linea organica: svotando l’architettura dell’ornamentazione afunzionale e simbolica.
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