Se l’opera espressionista stride eccessivamente per via delle sue irregolarità, è perché lo richiedono i segni dell’Epoca. Segni enormemente deformanti, dai quali non può nascere che una forma di turbamento e malumore, esagitata ed arcaica. Sarebbe pertanto del tutto fuori luogo affermare -come Arnold Gehlen- che
Arnold Gehlen, Quadri d’epoca… p.222… fra i quadri ad olio non ne esistono di molto convincenti perché gli artisti colorano e deformano troppo i soggetti, al fine di ricavarne le proprie sforzate emozioni, entro un processo circolare di reciproca esagerazione che non poteva non sfuggire al controllo.
Se l’artista vuole scioccare… si pròdiga nel cercare una forma che si realizzi secondo tale intento. Ciò richiede un processo intelligente, cioè ragionatore, ponderato, attento. Si progetta, escogitando al meglio la forma per far sì che calzi perfettamente il tema per cui è chiamata a deliberare le proprie qualità formali.
Osservare, scervellarsi, perscrutare: tutti elementi che non possono essere affidati all’ingenuità, né tantomeno -una volta avviato il processo creativo- alla soddisfazione estemporanea del primo effetto ottenuto lì per lì. Il processo creativo, occorre ricordarlo, è lungo ed estenuante, e non perdona peccati di ingenua impulsività e sconsideratezza. L’artista sa sempre ciò che vuole, rimanda alla propria razionalità ogni suo sofferente processo creativo.
Chi pratica l’arte sa che deve necessariamente affidarsi alla razionalizzazione del suo istinto creativo. Tutto in arte deve essere ottenuto intenzionalmente. L’iniziazione all’arte richiede dipendenza alla progettualità e al gesto incestuoso nei riguardi di tutto ciò che è stato già concepito. Rilevante (riguardo a ciò che ho appena asserito) è quanto si apprende dalle seguenti dichiarazioni di poetica di Emil Nolde:
Jean Leymarie, L’arte moderna. L’espressionismo e il fauvismo (III). p.35920 ottobre 1906
Nella mia arte uso tutti i mezzi che ho a disposizione per ottenere l’effetto che desidero. Desidero veramente che l’opera mia esca dalla materia, come nella natura la pianta cresce dal terreno che le è adatto. Nel foglio intitolato La gioia della vita ho lavorato principalmente col dito e ho ottenuto l’effetto che speravo. C’è in quest’opera qualcosa di arrogante, tanto nel soggetto rappresentato che nell’audacia della tecnica. Se io “aggiustassi” in senso accademico i contorni “lacerati e scompaginati” non raggiungerei questo effetto neanche approssimativamente. Mi metto lì, davanti ad ogni lastra e ci lavoro finché la mia sensibilità non è soddisfatta…Guderup sull’Alsen, 28 ottobre 1906
Le mie acqueforti non sono studiosamente costruite, ma nascono come all’improvviso. Certo, io ci penso molto, ma i momenti in cui veramente creo sono puri, liberi da tutto ciò che non è arte.
La poetica è (stando a ciò che si può apprendere da ogni opera d’arte) il modus programmatico con il quale l’artista tenta di ottenere un’adeguata concertazione fra il pensiero e il fare. Ogni poetica tenta di spiegare a se stessa la maniera con cui influire sul rendimento progettuale ed esecutivo.
Non v’è artista, poeta, musicista, architetto che non faccia ricorso alla messa a punto di una propria poetica. Ma, che cosa si intende fondamentalmente per poetica?
Walter Binni, La poetica del Decadentismo. Sansoni, Firenze 1996, p.3Con la parola “poetica” si vogliono essenzialmente indicare la consapevolezza critica che il poeta ha della propria natura artistica; il suo ideale estetico, il suo programma, i modi secondo i quali si propone di costruire. Si distinguono di solito una poetica programmatica e una poetica in atto, ma la parola ha il suo vero valore nella fusione dei due significati, come intenzione che si fa modo di costruzione.
Ad ogni modo, come non si identifica con la capacità autocritica dell’artista nell’atto creativo la chiarezza teorica circa l’essenza dell’arte, che egli può avere anche fuori di quell’atto, così non si identifica la poetica con la reale poesia. Si possono dare molti equivalenti della parola “poetica” nel campo dell’esperienza artistica: è la poesia di un poeta vista come ars, lo sfondo culturale animato dalle preferenze personali del poeta, è il meccanismo inerente al fare poetico, è la psicologia del poeta tradotta in termini letterari, è il poeta trasformato in maestro, quella certa maniera storicizzabile e suscettibile di formare scuola, che si trova sublimata nell’attuazione personale dell’artista, è un gusto che ha radice in un’ispirazione naturale e che si complica su se stesso.
La poetica sceglie e impone il contenutoPoetica è anche scelta e imposizione di contenuto, tanto più violenta quanto più esteriore è la forza nativa del poeta (per esempio, i futuristi).
La poetica aiuta a determinare il giusto ed equilibrato connubio fra forma e contenuto. Che la forma prenda forma dal contenuto o che il contenuto prenda forma dalla forma, sarà sempre la poetica a stabilirlo.
Strutturare un’opera mediante la poetica aiuta a definire, volontariamente, quale forma debba assumere un certo contenuto. Mi suona dunque del tutto incoerente, riguardo agli espressionisti, affermare con tono sprezzante che essi «colorano e deformano troppo i soggetti». Quel tipo di esagerata disfigurazione è ottenuto dagli espressionisti intenzionalmente, lo impone la loro stessa poetica. Non v’è operazione d’arte che non venga espressamente indirizzata a ottenere ciò che si prefigge di ottenere concretamente la poetica; e non v’è poetica i cui contenuti non nascano esplicitamente da un determinato momento storico.
Una poetica non può non esser concepita dall’attualità vissuta di un artista.
Se dunque prendessimo in esame i momenti storici in cui son nate certe forme espressioniste, certamente non ci sarà difficile apprendere che quella data forma, esageratamente deformata, non poteva (temporalmente e spazialmente) che esser così deformata: lo esigeva il tempo storico entro cui si attuava. Per comprendere sostanzialmente le diverse forme che popolano il mondo dell’arte, occorre necessariamente entrare nei contenuti di ogni poetica sviluppata dai singoli artisti. E poiché ogni poetica ricava la propria ragion d’essere nell’inquadramento storico in cui i suoi contenuti prendono forma, ne viene di conseguenza che nell’apprendere il suo senso si finisca poi nell’apprendere il senso storico a cui si ricongiunge. Sfugge forse a Arnold Gehlen che
Walter Binni, La poetica del Decadentismo… p.4nel cogliere il divario fra la poetica e la poesia, fra il programma e la realizzazione effettiva, sta il compito essenziale del critico. Studiare quindi la poetica di un poeta, significa afferrare il centro della sua ars e insieme la qualità della sua personale sensibilità.
Determinate caratteristiche dell’opera d’arte nascono sempre in relazione alla poetica dell’artista che l’ha concepita.
Il suo contenuto (come la sua forma) viene ritagliato da ciò che l’artista ha pensato di dover assimilare in qualità di riflessione estetica ed esistenziale, onde fornire la propria opera di autocoscienza e permettere ad essa di affermarsi come atto espressivo in grado di comunicare, quale reperto vivo di un pezzo di storia, un contenuto fecondato dall’acume di una riflessione dettata sia dalle pulsioni di un’esigenza comunicativa sia dalle declinazioni del presente storico a cui l’artista appartiene.
La poetica insomma
…è il programma che ogni artista, in quanto tale, non solo segue, ma sa di seguire, anche se esplicitamente non ce lo dice. Perciò ogni poetica implica un’“arte poetica”, ed ogni artista potrebbe, se volesse, redigere un qualcosa di simile all’Art Poétique di Boileau o di Verlaine, una critica cioè della sua arte e un programma di lavoro.
Quanta poetica v’è, ad esempio, ne Il grido di Edvard Munch? Presentata come vittima sacrificale di un fallimento esistenziale, la deformazione della figura è tale da suscitare inquietudine ed orrore a causa della sua eccessiva deformazione connessa a un apparato anatomico mancante, appesantito (e nel contempo alleggerito) da una forma vuota di forma. Ne concerne una figura angosciante, impressionabile, completamente deformata in un’espressione che deriva come da un esistente inadeguato all’esistenza.
Riguardo, dunque, a quest’opera di Munch… che cosa dovremmo affermare se la dovessimo giudicare secondo il metro di Arnold Gehlen? Ecco:
-essa figura è venuta a mancare all’appuntamento (più importante della sua vita) con l’anatomia;
-la sua deformazione, così tanto ostentata, denuncia incapacità di control-lare la forma: deforma troppo il soggetto;
-l’artista s’è lasciato prender troppo la mano sino a lasciarsi sfuggire delle pennellate gettate più in preda a un delirio emozionale che a una controllata relazione di scambio fra contenuto e forma, fra ponderatezza ed equilibrio formale.
Ma ben sappiamo che così non è. Quel Grido è quanto di più tragico sia stato ottenuto nell’arte. La sua forma –
informe corpo svuotato, sradicato irrimediabilmente dalla sua struttura ossea e dalla sua fisiologica anatomia- si confà a un dolore corrosivo, che nel corrodere il corpo dall’interno non può che esplodere esternamente in quella massa difformata, logorata e guastata come da un tormentoso tarlo riposto nella più profonda segreta del corpo e della coscienza.
Un dolore che potremmo chiamare antropologico, strettamente connesso al vissuto del corpo e dei suoi sensi, caratterizzato da una temporalità umana drammatica, sostenuta paradigmaticamente da un sé soggettivo e dal suo rapporto alienato col mondo. Un grido di dolore, proporzionale -a mio avviso- alle seguenti considerazioni di Paul Valéry:
Paul Valéry, Monsieur Teste. Il Saggiatore, Milano 1980, p.100Il dolore è dovuto alla resistenza della coscienza ad una disposizione locale del corpo. – Un dolore che potremmo considerare precisamente e quasi circoscrivere diventerebbe una sensazione senza sofferenza – e forse noi arriveremmo in tal modo a conoscere direttamente qualcosa del nostro corpo profondo – una conoscenza dell’ordine di quella che noi troviamo nella musica. Il dolore è cosa molto musicale, se ne può quasi parlare in termini di musica. Vi sono dolori gravi e dolori acuti, degli “andante” e dei “furioso”, delle note prolungate, delle corone e degli arpeggi, delle progressioni – dei bruschi silenzi, ecc. …
Da cui consegue, guardando attentamente l’opera: il dolore è cosa molto musicale: linee scorrenti e sfuggenti legano, in una danza di liquidità, il corpo fluido alle correnti volute dell’ambiente circostante, e tutto diviene (nonostante il grido d’angoscia) aeriforme, volubile, indefaticabile nella sua tensione e nella sua musicale convulsione poiché
Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770-1970. Sansoni, Firenze 1970, p.308nulla, nella realtà, ha la stabilità, la chiarezza, il significato certo della forma, tutto ha la precarietà, l’instabilità, l’inconsistenza dell’evento.
Un dolore musicale, dunque, Il Grido di Munch, che ci rimanda tecnicamente (con la sua forma e corporeità perdute) alla perdita della differenziazione degli intervalli nella musica dodecafonica:
Theodor Adorno, Filosofia della musica. Einaudi, Torino 1980, p.80Una volta tutto il senso del discorso musicale -il prima, il poi e l’adesso- si decideva inequivocabilmente in base agli intervalli; le promesse mantenute od eluse; la misura e la profusione; il restare nella forma e la trascendenza della soggettività musicale. Ora gli intervalli sono divenuti semplici pietre da costruzione, e tutte le esperienze che rientravano nella loro differenziazione appaiono perdute.
Dolori gravi e dolori acuti, dischiusi da un grido sgorgato dal suo precario stato di sopravvivenza, quasi un ecosistema esistenziale angosciato dalla sua perdita di identità, culminante nella perdita dell’Io, permeato da momenti di ipertensione, di lacerazione, di desolazione. Dolore acuto e, quindi, spasmodico (la bocca è spalancata in uno spasmo di lancinante esulcerazione).
Dolore degli “andante”: il corpo, che cede mollemente a un flaccido movimento di linee, lo vediamo andare in un movimento molleggiante, evidenziato dal contrasto con lo spasmo della bocca, orifizio entro il quale i denti, le gengive, la lingua hanno definitivamente perso le loro connotazioni formali.
Dolore dei “furioso”: grido arroventato da una forza in tragica tensione, che sa di perdersi, in qualità di nonsenso, nell’impasto fluido delle linee circostanti, che tutto amalgamano indifferentemente. Ora, tutto questo dovremmo ascriverlo a una insensata esagerazione?
Cosicché quella diagonale del ponte, elemento visivo dinamico (che contrastando con la verticalità della figura in primo piano e con le due figure che si perdono nella linea di fuga prospettica e con le linee fluide orizzontali del cielo… non fa che accentuarsi ancor di più divenendo più dinamica e scattante di quanto non lo sia già di per sé), è forse stata ottenuta casualmente perché improntata sulla tela da un incontrollato controllo, governato da una gestualità pittorica affetta da contrassalti causati da conturbazione psichica?
Io dico che questo è l’effetto che Munch voleva ottenere, riuscendoci alla grande. L’artista lo elabora (dalla quotidiana atmosfera alienante della superfluità umana e del suo inascoltato grido) con intenso lavoro e autocontrollo.
Pertanto, nessun elemento segnico e pittorico diviene (ne il Grido) secondario nello sviluppo tematico o viene dato allegoricamente in maniera superflua e fine a se stessa. Munch sembra dirci: che non può esservi nessun uomo senza un grido lacerante che lo incendi e lo deformi dall’interno.
L’uomo nasce, vive e tramonta in se stesso come fondamento di una vita mal vissuta. Il regno del suo Io è decantato da una potenza creatrice e distruttrice in quanto la sua morte ha luogo contemporaneamente alla sua resurrezione. La storia umana è intrisa di urli inascoltati e uccisi al loro nascere. L’autopotenziamento dell’Essere dell’uomo, è tutto quello che in sé fornisce e organizza la disperazione connotata dalla malattia mortale kierkegaardiana:
Sören Kierkegaard, La malattia mortale. Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1981, p.14Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire. In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provare vivendo il morire; e poter vivere in questo stato per un solo momento vuol dire dover vivere in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l’eterno in lui, l’io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia.
Morire di disperazione si trasforma in vivereMa questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. Il disperato non può morire; “come il pugnale non può uccidere i pensieri”, così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io che sta alla base della disperazione, “il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne”. Però la disperazione è un’autodistruzione, ma un’autodistruzione impotente che non è capace di fare ciò che essa stessa vuole.
La disperazione è autodistruzione impotenteCiò che vuole è distruggere se stessa, il che non è capace di fare; o quest’impotenza è una nuova forma di autodistruzione nella quale la disperazione si eleva a potenza. Questo è il dolore ardente, il bruciore gelido nella disperazione, che rode e consuma, continuamente rivolto verso l’interno, e che si addentra sempre di più in un’autodistruzione impotente.
La disperazione mantiene in vita il doloreLungi dall’essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è proprio il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che rode e la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera: perché non può distruggere se stesso, non può liberarsi di se stesso, non può annientarsi. Questa è la formula per elevare a potenza la disperazione, per indicare la febbre che sale nella malattia dell’io.
Quel Grido getta l’uomo in una morte esistenziale determinata dall’incapacità di uccidere la propria disperazione.
Tagliata su misura per il proprio grido, la figura conduce al fallimento il proprio corpo, quest’ultimo infatti non procede da se stesso, dalle azioni a sé interne, ma da un grido (proiettato in fuori dall’interno) che lo deforma, conato di una disperazione amplificata dalla deformazione di un corpo impresso in una massa amorfa, forse incompiuta, che trae la propria soddisfazione nell’esser disperato.
La figura si aggrappa al grido pur sapendo che non riuscirà a farsi ascoltare.
Il suo corpo si rifugia nel grido (ecco perché è così tanto deformato), ed è il grido stesso che, sfuggendo al controllo del corpo, lo deforma, lo smarrisce in un’angoscia indubbiamente deformante.
Quest’opera di Munch potrebbe essere nutrita da infinite interpretazioni, ognuna delle quali, a seconda del punto di vista da cui ci si muove, potrebbe essere quella giusta. Perché? Perché la deformazione della figura è così tanto suggestiva che da sola è in grado di crearci un getto continuo di impressioni capace di farci percepire la natura dell’uomo quale essa è: ambigua, oscura, tormentata, deformata emotivamente dalla molteplicità di sensazioni che in essa scorrono. Allora perché la deformazione esagerata dell’Espressionismo infastidisce Gehlen? Forse perché la deformazione ci suggerisce il corpo del mondo che scorre inesorabilmente, e ci fa toccare (tra la vita e la morte) la somiglianza del deforme con la violenza deformante della natura umana? Comunque stiano le cose, riferiamo a Gehlen:
Robert Musil, Sulla stupidità e altri scritti. Mondadori, Milano 1997, p.31
L’arte è fatta per le conquiste, non per la pace dello spiritoL’arte, l’arte che vale, rivela cose che pochi avevano visto. È fatta per le conquiste, non per la pace dello spirito. Perciò anche nei fenomeni di fronte ai quali altri rabbrividiscono l’arte vede dei lati positivi, delle connessioni.
Nella deformazione si percepisce l’essenza della metamorfosi di un mondo immerso nei suoi luoghi atmosferici, cosicché anche i suoi lati oscuri, occultati ai sensi, vengono percepiti per ciò che permettono di sentire secondo la loro relativistica metamorfosi. La deformazione è nell’ordine stesso delle cose che mutano.
Non è un ordine che si chiude su se stesso a ferita rimarginata, ma è una ferita aperta in cui i tessuti organici del corpo si decompongono per ricomporsi a nuovi interrogativi. Di conseguenza: la deformazione espressionista è incomprensibile senza paragonarla alla vis vitalis dell’universo:
Edgar Morin, Il metodo. Feltrinelli, Milano 1989, pp.106-107L’universo non ha perduto soltanto il suo ordine supremo: non ha più un centro. Einstein gli aveva tolto ogni centro di riferimento privilegiato. Hubble gli leva ogni centro astrale o galattico. Non v’è più un centro del mondo, sia esso la Terra, il Sole, la galassia, un gruppo di galassie. Non vi è più un asse del tempo non equivoco, ma un duplice processo antagonistico che deriva dallo stesso ed unico processo. L’universo è dunque, nello stesso tempo, acentrato, decentrato, disperso, in via di diaspora. Non tutto si riduce al disordine. Ma tutto comporta l’immersione nel disordine.
Ogni vivente e ogni cosa vivente -nel momento in cui vive- comporta deformazione: il vivente cresce, da uno stato ne raggiunge un altro, la sua forma attraversa diversi stadi, ognuno dei quali muta adattandosi al nuovo ambiente in cui il suo processo dinamico lo immette. La deformazione organizza la propria forma decomponendosi, decomposizione da cui non vi si chiude un cerchio, ma vi si definiscono biforcazioni, processi di crescita che creano mobilità, metabolismi irrorati da un continuo processo di scambio fra ciò che si deforma e ciò che lo deforma.
Quando gli espressionisti della Brücke dipingono paesaggi, il processo di simbiosi fra l’uomo e la natura viene così evidenziato: l’uomo è quasi sempre immerso in una vegetazione paesaggistica selvaggia, in cui tutto pare essere ancora allo stato di natura, tutto pare disordinatamente decomposto in una rappresentazione indistinta, organicamente inorganica, in quanto figura e paesaggio si sostengono a vicenda in una còpula primordiale: il caos, che viene a crearsi da quella còpula, dà vita alla forma della deformazione; l’uomo si nutre del paesaggio così come il paesaggio si nutre dell’uomo, ci troviamo di fronte a un rito cannibalesco, l’una mangia l’altra e viceversa.
Nasce da quella còpula, da quell’impasto deformato fra figura e paesaggio, la personificazione di un ímpeto vitale della vita dinamicizzato dalla mobilità formale ad esso conseguente, sempre in via di deformazione… e dunque di crescita. L’uomo è mangiato dalla natura e la natura dall’uomo. È in questa còpula cannibalesca che ci si rinnova: copulare con la natura, mangiarla e esser da essa mangiati, non è che un atto di spiritualizzazione.
Novalis, Frammenti. BUR, Milano 1976, pp.433-444Ogni cibo spirituale può quindi essere espresso mediante il mangiare. – Nell’amicizia si mangia difatti del proprio amico o si vive di lui. È un tropo quello di sostituire il corpo allo spirito e, durante il pasto in memoria di un amico, di inghiottire a ogni boccone la sua carne e a ogni sorso il suo sangue, con fantasia ardita, ultrasensibile.
Cibo organico e cibo spiritualeCerto al gusto molle del nostro tempo, ciò appare barbaro – ma chi li costringe a pensare subito al sangue e alla carne cruda e soggetta a putrefazione? L’appropriazione corporale è abbastanza misteriosa per essere una bella imagine dell’opinione spirituale – e sangue e carne sono proprio davvero tanto disgustosi e ignobili? In verità qui c’è più che oro e diamanti, e il tempo non è più lontano in cui si avranno più alti concetti del corpo organico. Ma per ritornare al simposio commemorativo – non si potrebbe pensare che il nostro amico sia ora un essere la cui carne possa essere pane e il cui sangue vino? Così noi ci cibiamo, tutti i giorni col genio della natura e così ogni pasto diventa un pasto cammemorativo, un pasto che alimenta l’anima come conserva il corpo, un mezzo misterioso di trasfigurazione e insediamento sulla terra, di vivificante contatto con la vita assoluta. Nel sonno inghiottiamo l’innominato – ci destiamo come il bambino al seno materno e ci accorgiamo che ogni ristoro e ogni rinvigorimento ci è venuto dalla grazia e dall’amore, e che aria, cibo e bevanda sono parti di una persona cara e ineffabile.
Cibarsi tutti i giorni col genio della natura, valeva per gli espressionisti anche cibarsi tutti i giorni del genio della natura.
Sentire la natura sulla propria pelle, avvistare in essa tracce spirituali che portassero a intendere la sua magica selvatichezza, veniva da Pechstein, da Heckel e da Kirchner a tal punto ritualizzato che decisero di derivare la loro pittura da un contatto epidermico con essa:
Max Pechstein, Erinnerungen (Memorie) in Wolf-Dieter Dube, L’espressionismo. Mazzotta, Milano 1979, pp.29-30Quando ci incontrammo a Berlino, mi accordai con Heckel e Kirchner di lavorare tutti e tre sui laghi di Noritzburg, presso Dresda. Conoscevamo già da tempo quella campagna e sapevamo che esisteva la possibilità di dipingere nudi all’aperto senza essere disturbati. Quando arrivai a Dresda e raggiunsi il vecchio negozio nella Friedrichstadt, discutemmo la realizzazione del nostro progetto. Dovevamo trovare due o tre persone che non fossero modelli di professione e che avrebbero posato per noi senza cadere nella routine dell’atelier. Mi venne in mente un mio vecchio amico, il portiere dell’Accademia – ricordo che si chiamava Rasch – ed egli ci salvò indicandoci subito un nome. Ci mandò dalla vedova di un artista con due figlie. Alla signora spiegai i nostri seri scopi artistici, lei venne a trovarci nel nostro atelier della Friedrichstadt e poiché vi trovò un ambiente familiare fu d’accordo che le figlie venissero con noi a Moritzburg. Avemmo fortuna anche col tempo: neppure un giorno di pioggia.
A Moritzburg si teneva saltuariamente un mercato di cavalli: ritrassi la folla intorno ai corpi lucenti degli animali in un quadro e in numerosi studi. Altrimenti partivamo di prima mattina carichi dei nostri attrezzi, dietro di noi le modelle con le borse piene di cose da mangiare e bere. Vivevamo in assoluta armonia, lavoravamo e facevamo il bagno. Se mancava un modello maschile da contrapporre alle ragazze, uno di noi tre faceva quella parte. Ogni tanto compariva la madre per controllare, come una chioccia ansiosa, che non succedesse nulla di male ai suoi anatroccoli che nuotavano nello stagno della vita. Ritornava sempre a Dresda con animo tranquillo e pieno di stima per il nostro lavoro. Ognuno di noi produsse molti schizzi, disegni e dipinti.
Si deformano colori in base al contesto; le forme delle figure vengono adattate in base alla seduzione subíta dall’attimo; lo sguardo si ferma ampiamente su ciò che passionalmente si avverte. Ci si impegna essenzialmente a ritrarre l’intensa iperattività della natura: la natura viene recepita come un corpo accuratamente ricco di suggestioni che vengono percepite al momento, portando la pittura a esigere di catturare quel carattere naturale che può essere prepotentemente sentito dalla stretta relazione fra l’uomo e la natura.
In questo caso, per quanto concerne la figura umana, il soggetto principale diviene il nudo. Il nudo viene colto spontaneamente nel suo lasciarsi andare con la natura. Non v’è fra l’uno e l’altra una barriera difensiva, a tenerli distanti come due entità distinte. L’annientamento di tale barriera mira a non reprimere la naturalezza di uno stato selvaggio: l’uomo e la natura, nella pittura espressionista, sono come sorpresi nell’ansia irrefrenabile di scambiarsi reciprocamente il corpo. Eccoci così alla fusione delle due parti, ognuna delle quali risulta notevolmente mutata dalla loro reciproca compenetrazione.
La figura si fonde con la natura… e viceversa. Tutto viene tracciato al momento, il rapporto fra la figura e la natura dev’essere colto al loro nascere, l’esecuzione pittorica dev’essere immediata, deve in essa prevalere il bisogno di riportare sulla tela un’inquietudine derivante dall’imprevidente e dall’inaspettato.
Le sensazioni forti vengono colte sull’atto, lo sguardo quotidiano assume una iniziativa nuova: attira su di sé ciò che vede, sensisticamente, con tutto il proprio corpo. Lo sguardo vede, tocca e annusa ciò che vede, per questo anche i colori disinibiscono i loro rapporti cromatici:
I “divisionisti”, come anche si chiamano, non mescolano i colori sulla tavolozza ma li collocano allo stato puro sulla tela, punto dopo punto, virgola dopo virgola, lasciando il compito di mescolarli all’occhio dello spettatore. Scopo di questo procedimento è di potenziare la forza luminosa dell’immagine. Ora, in luogo di irrigidirsi – come i pittori di questa tendenza – in una tecnica a piccoli punti, i nostri artisti di Dangast adottarono un procedimento effettivamente assai più libero. Se si osservano da vicino le loro tele, assomigliano ad un incolto campo di battaglia, sul quale rigagnoli della grandezza di un dito fino a quella di una mano di un rosso sanguigno, di un giallo esplosivo o di un verde velenoso combattono uno con l’altro una lotta a coltello. E talvolta i colori sembrano schiacciati sulla tela direttamente dal tubetto.
Servirsi dei colori tirati fuori dal tubetto (come sono all’origine), richiede un intervento gestuale che chiami direttamente in causa un atto corporeo istintivo, pulsionale, caratterizzato da un moto istintuale, non rattratto e intormentito da una modalità razionale, proporzionale alla propria logica.
Il colore, così facendo, s’abbandona alla propria matericità, anch’esso è colto sull’atto: l’atto di coglierlo direttamente dal tubetto viene connesso all’atteggiamento sensoriale istintivo con il quale si rileva la natura dalla sua condizione genuina.
Ma… anche l’atto spontaneo viene mantenuto vivo da un procedimento tecnico eccezionalmente caparbio: si disegna e si dipinge tantissimo, come presi dal raptus dell’insoddisfazione, come toccati da inesauribile incontentabilità.
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