Si dipinge, come Van Gogh, convulsamente, in uno stato d’animo travagliato e commosso. Penetrare a fondo la natura vuol dire per l’Espressionismo disfarsi di una visione normalizzata (dimora di una percezione che a memoria recepisce il vissuto), vuol dire ritornare a un’infanzia umana perduta, la sola che non ceda agli effetti deletèri di una percezione sensistica passivamente attaccata alle consuetudini, alla elencazione classificatoria delle esperienze vissute:
Antonin Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società. Adelphi, Milano 2006, p.53Di fronte a una umanità di scimmia vile e cane bagnato, la pittura di Van Gogh è stata quella di un tempo in cui non ci fu anima, né spirito, né coscienza, né pensiero, nient’altro che elementi primigeni di volta in volta incatenati e scatenati. Paesaggi di convulsioni forti, di traumatismi forsennati, come di un corpo che la febbre travaglia per portarlo alla salute esatta.
L’inafferrabilità del trauma diviene per gli espressionisti afferrabile. È la loro arte a dargli voce, senza dare sollievo alla sua dolorosità. Un’arte che non si sottrae alla perseveranza del ricordo lancinante, né alla esemplarità di un vissuto sociale disumanizzato. Un’arte che non símula un dolore apparente, che non si iscrive nell’illusione di sollevarsi dal male, o di condurre a guarigione la malattia dell’uomo.
Sa che sarebbe causa persa. Ma ciò non toglie che la sua vana impresa della denuncia non continui ad indignarsi di fronte allo stato incivile in cui la società di scimmie vili e di cani bagnati vive, sprofondata in un profondo guasto.
Dalle pennellate di Van Gogh… il sole è vivo e rutilante;
è un alone che ferve; una rostra che dardeggia di energia sfolgorante; un discorso cromatico -con la natura- rovente, vívido. Il colore freme sotto altri colori; lancia vibratezze da vitalità radianti; è impetuoso e vibrante, vigoroso e gagliardo: sgorga e fa fluire; si muove ovunque, in ogni cosa ritratta, perché sa che l’esistente è transeunte. Van Gogh ci ha portati dinanzi a un cromatismo soverchiato dall’irrompere del pathos della natura; cromatismo che si dibatte per prorompere, eccitare, sregolare.
Nella pittura di Van Gogh v’è sempre la declamazione di un colore fuori posto (ovvero disturbante agli occhi di chi non sopporta novità integrali), un’onda passionale di matericità, dalle superfici abrase e scorporate (o affette da sensualità e commozione), su cui incombe la versatilità di una violenza cromatica, atta ad aprire attentati all’ordine rituale e feticista.
«Paesaggi convulsi» (A. Artaud), in cui sia possibile cogliere il riso convulso di un campo di grano acceso d’oro, o il morbo gesticolatorio dei cipressi. La smorfia sofferente di un tronco d’albero, il singulto esacerbato della terra, graffiato da smottamenti ora di colori terrosi ora di colori accesi, avventati e ribelli. Insomma, «ogni suo vero paesaggio è come in potenza nel crogiolo dove sta per ricominciarsi».
Il colore travolta e rivolta, sconvolge e rimescola e, dopo la tratta di un sospiro amaro, ogni forma della natura si contorce sotto la spinta di un dolore straziante (o di un raggio di gioia esultante) ed è come se tutto avanzasse nello spazio per annunciare lo sconforto di un campo marcitojo, o il gaudio esultante di un’atmosfera primaverile ed estiva. In tutto questo… noi vediamo sempre che il colore, nell’attaccare i vizi di una pittura autoreferenziale, si fa deformante e acuto, pienamente fecondato da tonalità spaesanti, in mezzo alle quali assistiamo all’insorgere di toni che echeggiano una sonorità cromatica, che esprime ciò che vede, ode ciò che ha visto.
Sì, i colori di Van Gogh emanano suoni, rumori, urli, odori: sono a effetto sinestetico. Ci toccano, vi siamo immersi fisicamente. Van Gogh avvicina la profondità, diviene una sola cosa con le circostanze della praticaccia dell’esercizio costante e ostinato, coi racconti della quotidianità e con la seduttività dei suoi perturbamenti. Intimizzare la natura, succhiare dai suoi accidenti la linfa vitale dei suoi racconti, lasciarsi spiazzare dalle sue ricchezze e dalle miserie, tuffarsi nei suoi cambiamenti luminosi, nella sua volatilità atmosferica, magmatica e terrosa, intravedere nella ritualità solare sempre nuove luminosità cromatiche.
Cosa mescola a quei colori? Una massa di movimento che ondoleggia, libera di modellare l’aria, di darle colori che affondano ora nel cielo ora nella terra, che nutriscano di forti odori ogni paesaggio carico di luci, protese verso un urlo di gioia e di rivolta. Un uomo, un paesaggio, un animale, una pianta: in Van Gogh si sentono vivi, necessari all’universo.
Il colore, poi, modella anche chi preferisce vivere da isolato, da sofferente. Ti parla di luce anche quando è fango; si muove in un’energia dettata dal bisogno di rendere tutto vivo, anche quando nulla di ciò che ha colorato è rasserenante; è cosmico, aperto a ogni forma naturale, disponibile a perdersi nell’intensità passionale del volubile e delle sue accelerazioni; è emozionale, esprime l’intimità di tutto ciò che si muove in natura (sotto una luce appaiata a una violenta intensità di fierezza e rigóglio) in senso centripeto, corroborato da un’espansione dinamico-ascensiva (cipressi), ed elettricamente avvolgente (cieli diurni e notturni, soli e stelle, alberi in fiore e sfioriti, fiori, messi, frutteti in fiore, marine).
Per Van Gogh era importante guardare e osservare senza limiti, leggere il libro aperto della natura, col solo desiderio di conoscerla, di leggerla in tutte le sue varie forme, di arrivare a pensarla diversamente da come ella si mostra. Avvertiva dentro di sé l’urgenza di guardare anche, sostanzialmente, nella miseria umana, poiché
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.13si impara a vedere con un occhio diverso a contatto con le tristi prove della miseria
e nel perire d’ogni grazia e bellezza:
i minatori di carbone con la faccia stanca e miserabile, anneriti dalla polvere di carbone, infagottati in cenciosi abiti di lavoro…
Il lato romantico di Van Gogh, non si orienterà né verso l’infinito né verso il cielo. Contrariamente ad esempio a De Musset, che si sentiva tormentato dall’infinito, Van Gogh era tormentato dalla realtà terrena, dalla nuda e cruda materia della realtà, non dall’indefinitezza dell’infinito, ma dalla finitezza della realtà, dalle sue prosaiche vicissitudini e dal naturalismo della sua quotidianità:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.20che cosa c’è di più reale della stessa realtà, e dove c’è più vita che nella vita stessa? E noi che facciamo del nostro meglio per vivere, perché non viviamo di più?
Quel «vivere di più» per Van Gogh significava, non come per De Musset alzare gli occhi verso il cielo, ma abbassarli verso la terra, gettare lo sguardo a terra: perché l’occhio osservi, profondamente, tutto quello che gli è dato vedere su questa terra. Per quanto egli guardasse attentamente le opere dei suoi amati pittori (quali Daumier, Delacroix, Rembrandt) e le analizzasse con profondo acume, le sue analisi (da cui attingere idee per le proprie opere pittoriche), erano tutte rivolte alla natura. L’arte va attinta all’organicità della natura; quindi entrare in intimità con essa, esaminarla con cura, avvertire su di sé ciò di cui si nutre, esplorarla con curiosità, scandagliarla:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.29non è il linguaggio dei pittori, ma quello della natura che bisogna ascoltare.
Ascoltare il linguaggio della natura significa per Van Gogh non essere con la tradizione, non guardare idealmente indietro, non guardare alla pittura e a ciò che ha già costruito con le sue teorie; non rifarsi all’ingenuità dei maestri antichi, ma scavare a fondo col pensiero, addentrarsi con più profondità in ciò ch’è da pensare, con spirito selvaggiamente moderno:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.29personalmente, trovo nei dipinti moderni un fascino che gli antichi maestri non avevano. (…) Quel che voglio dire degli antichi e dei moderni è questo -che forse i moderni pensano più profondamente. (…) Così ritengo sia stato un errore quando alcuni anni fa i pittori moderni attraversarono una fase di imitazione degli antichi.
Nutrirsi di naturalità, attraversando un’esperienza nuova. Occorre dare nuovo sviluppo all’arte, col fornirle un pensiero essenzialmente più profondo, senza rifarsi a un’arte già fatta, pensata secondo le sue stesse regole. Perciò… se si volesse pensare a rappresentare ad esempio il dolore, si cerchi il colore là dove esiste il dolore; se l’arte deve rifarsi alla sofferenza, sia in grado di soffrire; riassuma in sé il dolore per concretizzarsi in dolore:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.28sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale ma il dolore vero.
Per esprimere un dolore vero occorre un’arte vera, non più rappresentativa, simbolica, riducibile a regole canoniche. Il pensiero di Van Gogh incide ímpeto, inonda. Dichiara una selvatica emozione, con trasalimenti febbrili, intensi. Schizza un furore cromatico che si dipana in atmosfere pronunciate come da un tragèdo che muova il proprio dramma in una ricca e febbrile gamma di effetti pittorici.
Non è dunque un caso che Van Gogh senta Shakespeare, ovvero la parola di costui, in sintonia con la sua pittura, con le sue pennellate. Dirà infatti di Shakespeare:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.7la sua parola e il suo modo di agire raggiungono la potenza di un pennello fremente di febbre e di emozione.
Van Gogh passerà la sua breve esistenza a indagare non solo nella caratterialità della natura (e in questo sta la sua fratellanza con Shakespeare), ma anche in quella della natura umana. Riserva alla sua pittura un ruolo di ricerca (esplorativa) nella condizione esistenziale umana.
Come Shakespeare non generalizzerà i caratteri umani ma li caratterizzerà, facendo di essi un preciso ritratto del loro modo di essere, descrivendo persino i loro stati d’animo e gli astrusi e inquietanti ghiribizzi risalenti dalla profondità della loro psiche. Van Gogh perviene a una pittura che reputa significativo caratterizzare minuziosamente ogni singolo aspetto di un paesaggio, di una natura morta come di un ritratto umano, riportando in superficie l’energia che cóvano nel loro fondo. Così abbiamo, in Van Gogh, che anche l’erba, un campo di grano, la luce diurna e notturna, gli alberi, ecc., hanno una loro precisa fisionomia che va a stratificarsi col loro modo di essere, con la loro naturale complessione. Ciò significa che egli non si sofferma a dipingere un fiore ma a farne un ritratto, la cui espressività fisiognomica corrisponda all’umore che emana nell’attimo in cui viene osservato per essere ritratto.
Persino nei suoi paesaggi disegnati Van Gogh non trascura di individuare (fra le infinite possibilità espressive) un segno, un tratto, una precisa linea che servano a caratterizzare (pertinentemente) ogni forma ritratta.
Abbiamo ad esempio…
-cieli gremiti di puntini, a effetto pulviscolare;
-soli, ottenuti con un effuso insieme di tratteggi irraggiati, a diffondere raggi luminosi;
-campi mietuti, configurati da un effetto gradiente (per suggerire la profondità di campo) fra tratti numerosi e fittamente raccostati (posizionati in profondità), e tratti meno infittiti, distanziati, per un effetto di avvicinamento al punto di vista dello spettatore;
-prati, la cui erba è stata sintetizzata con piccoli segni verticali, di eguale lunghezza e misura, intervallati con una modularità regolare;
-fronde di fogliami, delineate (a effetto chiaroscurato) con fregacci arcuati, intessuti a ordito míschio di intrecci;
-tronchi d’albero caratterizzati con lineette semicurve, per definire la loro circolarità;
-tratti di campo terroso, configurati da un più o meno fitto puntinato, a effetto ghiaioso;
-corsi d’aqua di fiumi, tratteggiati con lineette orizzontali, accostate tra di loro con una ritmicità uniforme, attraversata da un brivido di vibratili oscillazioni;
-fumaiòli fumiganti, il fumo dei quali è stato figurato con una leggera folata di lineette ondoleggiate;
-casupole con tetti a spiovente, ottenuti con lineette parallele.
Insomma la linea e il tratto nel disegno, o la pennellata e il tocco in pittura, non vengono indiscriminatamente distribuiti sulla superficie delle cose e degli esseri ritratti, ma vengono dati col preciso compito di evidenziarne ogni aspetto della loro caratterialità: cosicché anche un mero paesaggio lo vediamo esprimere, a seconda del momento e del giorno in cui viene ripreso, il proprio stato d’animo: gioviale o malinconico, sereno o inquieto, allegro o triste, o volubile, capriccioso, indomabile, ecc. Conoscere il soggetto prima di dipingerlo:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.104dovunque io sia, avrò sempre una meta -dipingere la gente come la vedo e come la conosco.
Tutto ciò, per Van Gogh, significava: osservare un soggetto sino a sentirselo sulla pelle, sino a essere a conoscenza dei suoi stati d’animo, sino a ravvisare e a intendere quali energie in esso interagiscano. Come ogni essere umano ha caratterialmente la sua irripetibilità, così ogni particolare organico e inorganico ha nella natura la sua irripetibilità caratteriale.
Per poter esprimere questa ricca gamma di stati d’animo, di forze energetiche di movimenti, di linee di forza, occorreva dare alle pennellate una gestualità guidata da un geometrismo inquinato di multiformità, perché raggiungesse, cromaticamente, effetti polifonici, mettendo da parte il colore locale:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.101Delacroix cercò ancora di far credere la gente alla sinfonia dei colori. E quasi si sarebbe indotti a dire “invano”, se si ha presente che quasi tutti concepiscono come colore valido il colore locale, esatto, una precisione da menti piccine…
Un colore locale, circoscritto dalla sua sola tonalità, limitato a sé, non si mette in azione, non si muove, non spinge in fuori altre tonalità cromatiche, non perturba, non còncita né accende l’animo. Ma è statico, e perciò rasserena gli animi.
Per quanto il colore locale possa essere più amabile di quello sinfonico, perché non è inquietante; per quanto sia preferito da chi non sopporti essere elettrizzato da movimenti percettivi atti a destargli una certa impressionabilità, il colore locale non è niente affatto indicato a rappresentare neppure la molteplicità -formale e cromatica- di una ambientazione paesaggistica.
Per poter avvicinarsi con più fedeltà al suo temperamento formale, occorre non solo non servirsi del colore locale, ma anche metterci una buona manciata di giapponeseria. Ma che cosa si intende per giapponeseria? In una lettera al fratello Theo -1885, descrivendo la ricchezza paesaggistica e urbanistica di Anversa e dei suoi moli, il senso di giapponeseria ce lo dà nei seguenti termini:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.91Ho già camminato diverse volte lungo i moli e le banchine, in ogni direzione. Soprattutto quando si arriva dalle sabbie, dalla brughiera e dalla quiete di un villaggio di contadini, dopo esser rimasti soltanto in ambienti tranquilli per lungo tempo, il contrasto è curioso. È un labirinto indecifrabile. De Goncourt diceva: «Sempre giapponeserie». Ebbene quei moli sono una formidabile giapponeseria, fantastica, strana, mai vista -per lo meno, si possono considerare così. (…)
Figure in azione, ambiente strano, contrasti interessantiLaggiù si potrebbe fare di tutto: vedute della città, figure di ogni sorta, le navi come protagoniste, con acque e cielo di un grigio delicato, ma soprattutto giapponeserie. Voglio dire che le figure sono sempre in azione, si vedono nell’ambiente più strano, tutto è formidabile, e si presentano sempre dei contrasti interessanti.
Colori sinfonici e giapponeseria servono a dare l’effetto di multiformità. Così notiamo che quel colore polifonico, immerso in un paesaggio affetto da giapponeseria, è come se ci svelasse ai nostri occhi, per la prima volta, la sua energia. Energia che si traduce in atmosfere in cui è trattenuta l’attività in potenza della natura.
Van Gogh dunque non dipinge ciò che nella natura si muove in superficie, ma ciò che esplode dall’intimità di essa.
Il colore in Van Gogh è energico, risoluto nell’ottenere ciò che effettivamente vuole, audace nell’azzardare in un ordito cromatico mai prima pensato; ostinato e coraggioso nell’indagare in ogni effetto luminoso ascrivibile ad alcuni movimenti vibratili riscontrabili in natura.
Il colore in Van Gogh è sempre: o troppo spento o troppo acceso.
E ciò provoca disturbo all’occhio, così come la musica dodecafonica provoca disturbo all’orecchio.
Per cui si presenta sconveniente agli occhi di chi non ama colori o troppo accesi o troppo spenti; di chi insomma vede l’arte alla maniera classicista: regolata su perfetti equilibri fra forma e colore.
E poiché ogni colore deciso -per dirla con Goethe- fa una certa violenza all’occhio, e costringe l’organo all’opposizione, ecco che il focus pittorico in Van Gogh si concentra tutto nel corroborare la forza energetica del colore, perché questa scagli un pugno all’occhio al fine di ridestarlo, strapparlo dalla sua passiva visione quotidianizzata.
Inoltre, la sua spinta alla molteplicità cromatica, ottiene un colore paesaggizzato; un colore cioè che, emergendo da una precisa caratterialità paesaggistica, diviene anch’esso (a causa della sua cangiante vibratilità) paesaggio. Ogni tocco pittorico deve per Van Gogh avere implicitamente in sé la singolarità del soggetto osservato, deve richiamare alla memoria ogni precisazione del suo carattere, deve animarsi sotto una precisa luce.
Sotto quella luce, circoscritta alle caratteristiche del luogo e del soggetto, il colore non solo deve prendere colore ma deve anche prendere forma.
Tale risultato non ha forse anticipato ciò che Rudolf Steiner afferma, antroposoficamente, riguardo al colore «è un essere interiore quello che si manifesta realmente nel colore»?
In Van Gogh è l’interiorità del colore che vien fuori, poiché è un colore strappato dalla energia interiore del soggetto che ha spinto in fuori il proprio colore energetico. Van Gogh, nell’affermare che il «cobalto è un colore divino e non c’è nulla di altrettanto bello per creare un’atmosfera intorno alle cose», non ci sta forse rivelando che ciò che cerca nel colore è la sua essenza energetica? Se guardassimo il cobalto solo per ciò che è esteriormente ai nostri occhi, potremmo mai in esso vederci il colore del divino?
Quando afferma che «il carminio è il rosso del vino e ha il colore mordente del vino», non ci ha forse rivelato che il carminio è il colore dell’essenza del vino poiché è il vino che sprigiona, dall’interno di sé, il colore che nell’essenza lo caratterizza per ciò che è ai nostri occhi? E poi, nel vedere nel carminio il rosso del vino, non ci sta forse anticipando ancora ciò che Rudolf Steiner dirà:
Rudolf Steiner, L’essenza dei colori… p.32abbiamo sempre nel colore, in qualsiasi modo, un’immagine?
Ogni tipo di colore ci suscita immagini, tant’è che è indubbio che per noi il nero rappresenti, ad esempio
l’immagine spirituale di ciò che è morto.
Infatti abbiamo la netta sensazione che il colore in Van Gogh sprigioni l’essenza dei dati raccolti da ogni elemento che anima un paesaggio. Cosicché nei colori di Van Gogh non vi è soltanto l’atmosfera del paesaggio, ma anche i suoi umori dovuti al tempo e all’ora in cui ha eseguito l’opera, e anche l’energia che sotto ad ogni elemento vi si cela.
Tutto ciò è dovuto al fatto che profondamente egli «guarda la natura dal punto di vista del colore», poiché «per fare un quadro che sia veramente del sud -scrive al fratello Theo, da Arles nel 1888-, non basta una certa abilità. Occorre guardare a lungo le cose, maturarle e concepirle in profondità».
Abbiamo in Van Gogh colori lumeggiati o intorbati sia con grande perizia e ragionamento, sia per mezzo di una gestualità mirata e controllata, poiché il fine è quello di cogliere, velocissimamente, in flagrante, tutti gli umori ravvivati da un particolare stato d’animo della natura paesaggistica.
Tutta la pittura di Van Gogh è gestualizzata. Ma sia il segno (quando si tratta di disegnare) sia la pennellata (quando si tratta di dipingere) mirano sempre all’essenza e alla sintesi della porzione del mondo visibile da egli preso in considerazione.
In Van Gogh il segno: marca, imprime, distingue, índica, segnala, registra. La pennellata: disagguaglia, suddistingue, singolarizza, specifica, sbozza, arabesca, e stabilisce forma, colore e movimento anche quando si fa atmosferica e psicologica, magmatica, commossa, scattante, agitata, tormentosa, sforzata, torva e torta.
E che cosa vediamo trasparire dalla vibratilità cangiante di un colore vangoghiano se non i suoi stessi stati d’animo? Così abbiamo che il colore si fa più luminoso e cangiante se gioisce, più materico se mostra la materia di cui il soggetto è fatto, più tumultuante e inquieto se è stato ricavato dalla natura del torbiccio. Si mostra insomma per ciò che è e risulta alla luce della forma e della materia che lo evidenzia. E dunque… il colore intriso di forme che colore ha? Il colore osservato da altri punti di vista, che non siano i suoi, che colore ha? Osservate attentamente le opere di Van Gogh… e lo saprete.
Van Gogh riporta quanto gli è accaduto di vedere e di sentire; trascende il vedere… per vedere oltre; più che interpretare, viviseziona ciò che sente; sàtura il colore col retroterra esistenziale. Per dar colori al colore, Van Gogh raccoglie dati da ogni cosa che anima il paesaggio.
Il colore deve essere esperito in funzione di avvalorare la singolarità del soggetto. Dev’essere perciò empirico, deve essere gettato in fuori in base all’esperienza visiva fatta nell’analizzare il soggetto e i suoi rapporti con lo spazio-luce. Il colore inoltre deve richiamare a sé la compenetrazione fra sé e lo spazio.
Tutto ciò dev’essere catturato velocissimamente, da uno sguardo incomparabilmente esaminatore. Anatomizzare la natura per arrivare a una sintesi:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.155ciò che io cerco è che in pochi tratti la figura di uomo, di donna, di bambino, di cavallo e di cane abbiano testa, corpo, gambe e braccia, che stiano insieme.
Il colore va modellato: a seconda delle esigenze, adeguarlo all’accento e all’inflessione circostanziati a ogni elemento naturale. I fiori, le piante, le erbe, i campi vengono persino colti durante il loro corso di crescita e di evoluzione. Anche il colore deve mettere gemme, rampollare, verzicare, o imporrare e infracidire. Si tratta di spremere ciò che si vede, per esternare ciò che vi è dentro.
Quindi non soffermarsi a dipingere, come gli impressionisti, l’impressione, ovvero ciò che sensorialmente è percepibile alla superficie: l’aggressione della luce sul soggetto; il soggetto profondato negli effetti pulviscolari, cacciato dentro ai toni cangianti di colori dovuti ai differenti effetti luminosi. Si tratta insomma di dar forma conveniente a ciò che si percepisce con intensità profonda.
E dunque… Van Gogh dirà:
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.132invece di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario per esprimermi con intensità.
Ma cosa significa trattare in modo più arbitrario il colore, per esprimere con intensità?
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.132Ecco: Vorrei fare il ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni. Quest’uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, più fedelmente possibile, per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così.
Il colorista arbitrario ed esageratoPer finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancione, ai gialli cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l’infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda, illuminata su questo sfondo blu suntuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell’azzurro profondo.
Occorre esternare ciò che si prova, si percepisce e si vive a contatto diretto con la natura.
Ad esempio, ne Il ritratto di un vecchio contadino, Patience Escalier -1888, Van Gogh non si limita a ritrarre ciò che ha dinanzi agli occhi, ma anche ciò che appartiene alla sua esistenza, ciò che deriva dal suo esserci: occorre provare ciò che il soggetto ha provato, immaginandolo
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.132in mezzo al forno della mietitura, in pieno mezzoggiorno. Da ciò gli arancioni sfolgoranti come ferro arroventato, da ciò i toni di oro vecchio luminoso nelle ombre.
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