Saggio sopra l'espressionismo

il tocco nell’opera pittorica di Van Gogh

Nell’opera pittorica di Van Gogh il tocco fa da punteggiatura e sottolinea il non finito

Nell’opera pittorica di Van Gogh ci troviamo di fronte a un numero cospicuo di tocchi. Ogni tocco fa da punteggiatura; getta colore su colore, governandolo; fissa segni di interpunzione, sottolineando seriamente e meticolosamente il non finito, la cui grammatica è da ricercare nella configurazione caotica della natura. Ogni tocco si distingue nella sua incisività: abbiamo il tocco graffiato, il tocco scontornato, il tocco contornato, il tocco intaccato, il tocco tratteggiato, il tocco scalfito, il tocco in rilievo, il tocco punteggiato.

Citare tutti i particolari che compongono la natura

Tutta questa minutería, per ottenere un non finito? Sì, se si tratta di citare ogni sorta di elemento della natura, ogni sua mossa. Sì, se si intende far risaltare quel proflúvio di estrosi particolari di cui la natura è fatta.

Il tocco dà il realismo all’opera di Van Gogh

È col tocco che Van Gogh intende dare all’opera un effetto di realismo. Il tocco esprime sonorità cromatiche, crude, tra vibrazioni tonali toccate da un certo grado di ruvidezza riscontrabile tra gli elementi naturali che la natura offre:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.189

Ciò che ho fatto è un realismo un po’ duro e grossolano accanto alle loro astrazioni, ma servirà a dare la nota agreste e saprà di terra.

L’istantaneità e essenzialità del tocco

Il tocco richiede velocità nell’esecuzione. Ed è proprio grazie a questa sua velocità gestuale che il tocco è la tecnica pittorica più idonea a catturare, nell’istantaneità, l’essenzialità.

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.185

Che cosa strana è il tocco, il colpo di pennello. All’aria aperta, esposti al vento, al sole, alla curiosità della gente, si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata. Ed è proprio facendo così che si coglie il vero e l’essenziale -questa è la cosa più difficile.

Il tocco ci dà ciò che lo sguardo ha acchiappato al volo, ciò che ha colto al momento, ciò che ha catturato all’istante, ciò che ha percepito in un batter d’occhio, ciò che ha intuito in un breve spazio di tempo.

Il tocco cerca il suono interiore di un elemento (Kandinskij): mira a stilizzare e non a idealizzare

Il tocco -per dirla allegoricamente con Kandinskij- cerca «il suono interiore di un elemento», per cui esso non mirerà mai a idealizzare il soggetto ma a stilizzarlo, poiché se «nell’“idealizzare” l’essenziale è cercare di abbellire la forma organica, di renderla ideale», di renderla retoricamente chimerica, sopramondana, la “stilizzazione”, invece, si propone

Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, p.50

non di abbellire la forma organica, ma di metterla in risalto eliminandone i particolari.

Mettere in risalto la forma organica

Tale procedimento, nato «nell’area dell’impressionismo… era originalissimo, ma piuttosto esteriore». Van Gogh era del tutto consapevole che il suo tocco (che costituisce sì una stilizzazione del soggetto analizzato, ma anche e soprattutto una sintesi di esso, seguendo la sua personale complessione) non aveva nulla a che vedere con quello degli impressionisti:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.132

Non sarei per nulla stupito se fra poco gli impressionisti trovassero a ridire sul mio modo di dipingere, che è stato fecondato più dalle idee di Delacroix che dalle loro.

Con il tocco, Van Gogh vuole renderci visibile ciò che suona nell’interno di ciò che vede.

Norme di composizione stabilite di volta in volta, a seconda del soggetto

Il tocco, rispondendo a un gesto che proviene da una vista che ha sentito con tutto il corpo, stabilisce le sue regole per esprimersi. E le sue regole non si rifanno mai alle norme stabilite una volta per tutte, ma ne compongono sempre di nuove, sulla base del soggetto preso in considerazione. Il tocco vangoghiano, sotto qualsiasi luce osservi, vuole vederci chiaro.

Il tocco guarda alla natura come a qualcosa di cui non bisogna lasciarsi sfuggire nulla

Il tocco si trova sempre alla mercé dell’istante: s’affaccia alla natura con l’intenzione di non lasciarsi sfuggire nulla, afferra tutto quanto può in un attimo. È spinto dal desiderio di riportare nel colore tutto ciò che ha percepito nell’osservare estemporaneamente.

«Dipingere è una cosa che logora» perché bisogna lavorare «con un certo calore»

«Dipingere -dirà Van Gogh- è una cosa che logora». Logora perché la sua esplicita esigenza è quella di rafforzare la propria visione con una attenta e paziente osservazione. La sua visione vuole apprendere la grammatica della natura. Occorre imparare a leggerla. Per poterla leggere è assolutamente necessario scendere in campo aperto; e, all’aria aperta, immergersi in tutte le sue proposizioni, imparare a chiamare per nome ogni vibrazione cromatica che in essa prende forma come un predicato sottinteso. E ancora:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.292

bisogna lavorare con convinzione ed entusiasmo, in breve, con un certo calore.

Bisogna osservare sinesteticamente

Lavorare con un certo calore vuol dire: osservare sinesteticamente con tutto il corpo. Cioè sentir parlare il colore, ascoltare attentamente le tonalità con cui ci parla; che cosa dice tramite di esse? Sfogliare con le proprie mani le pagine della natura, per leggervi attentamente ogni suo manifesto movimento; notare tutto ciò che accade, sotto diverse luci, in ogni elemento naturale preso di mira; guardare, annusare, gustare di continuo tutto ciò di cui i paesaggi son fatti, avvertire sulla propria pelle ogni loro sapore.

Emozionarsi e prendere l’usuale per inusuale, come fanno i bambini

Emozionarsi, ecco il segreto di Van Gogh. Sentir parlare con un linguaggio inusuale… ciò che è usuale. Rompere l’usuale per meglio analizzare gli elementi di cui è fatto; spingersi sino in fondo ad esso. Il corpo intero, se vuole arrivare a sentire con intensità, deve avere la capacità -che solo i bambini hanno- di emozionarsi; di prendere, tutti i giorni, l’usuale per inusuale. Come? Osservando tutto con calma, per non lasciarsi sfuggire che

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.128

anche un bambino nella culla, se lo si osserva con calma, ha l’infinito negli occhi.

Ogni veduta ricorda a Van Gogh la mano di un artista

L’arte lo segue ovunque. È la sua vitale ossessione. In ogni veduta paesaggistica, in ogni essere vivente da egli preso in considerazione, vi scorge la mano di un artista che gli è particolarmente caro. Nei paesaggi di Arles gli

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.116

torna in mente ciò che ha visto di Cézanne, perché lui ha talmente ben reso la costa aspra della Provenza.

Tutte le stagioni gli sono congeniali, sia per riscontrarvi delle similitudini, sia per rintracciarvi la mano di altri artisti: in giugno, in cui la

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.116

natura… comincia ad esser bruciata (…), c’è dell’oro antico, del bronzo, si direbbe del rame, e ciò, con l’azzurro verde del cielo scaldato fino a diventare bianco, dà un colore delizioso, estremamente armonioso, con dei mezzi toni alla Delacroix.

A Saintes-Maries-de-la-Mer, nota che -ed eccoci a un’altra similitudine-

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.116

il Mediterraneo ha un colore come quello degli sgombri, vale a dire è cangiante, non si sa bene se è verde o viola, non si sa sempre se c’è del blu, perché a seconda del riflesso cangiante prende una tinta rosa o grigia.

Van Gogh scava nei particolari e cerca minúzie cromatiche

La sua visione è penetrante, particolareggiata, minuziosa. Addentrandosi nei particolari, cerca di coglierne il dettaglio, scende persino a inventariare tutte le sue minúzie cromatiche:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.119

Ho passeggiato una notte lungo il mare sulla spiaggia deserta, non era ridente, ma neppure triste, era… bello. Il cielo di un azzurro profondo era punteggiato di nuvole d’un azzurro più profondo del blu base, di un cobalto intenso, e di altre nuvole d’un azzurro più chiaro, del lattiginoso biancore delle vie lattee. Sul fondo azzurro scintillavano delle stelle chiare, verdi, gialle, bianche, rosa chiaro, più luminose delle pietre preziose che vediamo anche a Parigi – perciò era il caso di dire: opali, smeraldi, lapislazzuli, rubini, zaffiri. Il mare era d’un blu oltremare molto profondo – la spiaggia di un tono violaceo, e mi pareva anche rossastra, con dei cespugli sulla duna (duna alta 5 metri), dei cespugli color blu di Prussia.

La visione al microscopio, simbolo della nuova maniera di vedere

La sua visione, riservata all’uso dello scavo, della penetrazione, è ciò che sembra gli fornisca (nella ricerca di un dettaglio riassuntivo delle peculiarità di un pezzo di natura) un “macroscopio” secondo l’accezione di Joël De Rosnay:

Joël De Rosnay, Il macroscopio. Verso una visione globale. Dedalo Libri, Bari 1977, pp.8-9

Il macroscopio… può essere considerato il simbolo di una nuova maniera di vedere, di comprendere e di agire. (…) Il macroscopio filtra i dettagli, amplifica i collegamenti, fa scaturire le similitudini.

Essere uniti a ciò che si osserva per diventare visione

La visione di Van Gogh non è separata da ciò che osserva. Anzi, nell’osservare ciò che osserva, diviene ciò che ha osservato a tal punto che la sua gestualità -nell’atto di dipingere- non viene direzionata inibitamente dalla logica perentòria della razionalità, pronta a deporsi su una gestualità compassata, affettata, rigidamente misurata, disposta solo a configurarsi in punti fermi, in cui nulla vi si introduce liberamente e indirettamente. No! L’attenta visione gli eccita l’emotività, gli tocca l’animo, rendendolo più disponibile a trarre da ciò che osserva, con sincerità, un segno, un colore della sua vitalità.

La visione attenta eccita l’emotività ma la pittura non è irrazionale

Ma non per questo la sua pittura –violentata da un’emotività facile a turbarsi, a emozionarsi- si getta convulsamente nell’irrazionale, nell’incoerente, nell’illogico. Scrive al fratello Theo nel 1888:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p. 125

Ti voglio prevenire che tutti troveranno che lavoro troppo velocemente. Non ci credere. Se non è l’emozione, la sincerità del senso della natura che ci conducono, e se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgerci del lavoro, e che talvolta le pennellate vengono giù una dopo l’altra e i rapporti di colore come le parole in un discorso o in una lettera, bisogna però ricordarsi che non sempre è stato così e che in futuro ci saranno pure dei giorni cupi senza ispirazione. Bisogna perciò battere il ferro fin che è caldo e mettere da parte le sbarre forgiate.

Bisogna approfittare dell’ispirazione e battere il ferro finché è caldo

V’è insomma sorveglianza nella sua gestualità. Essa non significa casualità, ma ciò ch’è stato fatto come era stato previsto. Tutto è stato sottolineato secondo il suo giusto segno e secondo la sua giusta intonazione cromatica. La gestualità di Van Gogh mira a marcare ogni singolo elemento pittorico, a trascrivere tutte le particolarità dell’osservato.

L’emotività dà la libertà d’azione

L’ímpeto di emotività dà a Van Gogh libertà d’azione. Egli non si sente di appartenere a quel genere di pittori che concepiscono (o hanno concepito) la pittura come generalmente è sempre stata concepita. La sua pittura tralascia volutamente di farsi secondo il suo solito farsi.

Un esercizio pittorico nuovo, mai prima concepito

In mano a Van Gogh diviene, integralmente, un esercizio pittorico nuovo, mai prima concepito, un nuovo modo di operare nel campo della pittura, uno strumento nuovo per prelevare dal visibile ciò che anima la sua propria anima.

Antonin Artaud, Van Gogh… pp.14, 33

La pittura di Van Gogh non attacca un certo conformismo di costumi, ma il conformismo stesso delle istituzioni.
Van Gogh era una di quelle nature dotate di una lucidità superiore che permette loro, in ogni circostanza, di vedere più lontano, infinitamente e pericolosamente più lontano del reale immediato e apparente dei fatti.

La sua visione scava dentro le cose, è sollecitata (con incisi che sprèmono sostanze dai dettagli) a spingersi in fondo. Ciò che ha veduto e analizzato, lo vuole mettere tutto. Per questo ogni sua pennellata, anche se gestualizzata, è puntigliosa, riporta dall’osservato brani intensamente e appassionatamente spremuti da ogni particolare osservato.

La gestualità profonda della pennellata, i segni e i colori

Ma ciò che illumina la sua gestualità emotiva, non è una gestualità fine a se stessa, ma una gestualità che vuole attirare l’attenzione su ciò che i suoi colori e i suoi segni hanno attinto dal profondo:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.315

Solo così sento la vita, quando riesco a spingere a fondo il lavoro.

Scrive al fratello Theo:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.342

I giapponesi… vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori.

Sentire la vita come i giapponesi

Sull’esempio dei pittori giapponesi Van Gogh vuole emozionalmente tuffarsi in ciò che vede e sente con tutto il corpo. Quando vede contadini che scavano la torba, che bruciano sterpi, che piantano patate, che si trascinano fascine nella neve, che seminano… è come se fosse uno d’essi, è come se fosse esso stesso un contadino.

Utagawa Hiroshige, 15a stazione – Kanbara (Stampa 16), dalla serie 53 stazioni di Tōkaidō, 1833-34

Nel ritrarre tutto il peso del loro esistere (che si portano faticosamente e miseramente addosso) e i paesaggi entro cui quelle figure sembrano essere devotamente un tutt’uno con essi, cosa mette in primo piano (anche quando tutto è attraversato dalla poca visibilità di una luce al tramonto, e i loro corpi s’intravedono o in controluce o in penombra) se non ciò che in quel preciso istante, profondamente, li caratterizza?

Paesaggio e figure sono tutt’uno, sono fatti del medesimo corpo

Le sue figure pare che assumano, metamorfosandosi, ciò che il paesaggio dà ed emana al momento; paesaggio e figure, sembrano fatti con il medesimo corpo.

Dipinge alla orientale, in armonia con la natura verso la conoscenza

Guardare all’arte giapponese non vuole dire per Van Gogh soltanto comprendere che essere in armonia con la natura è un mezzo vivo e certo che conduce a conoscere e a conoscersi meglio, ma vuol dire anche riuscire a vivere la pittura alla maniera tipica degli orientali. Ad esempio:

François Cheng, Il Vuoto e il Pieno. Guida Editori, Napoli 1989, p.23

… in Cina, la pittura è una filosofia completamente in atto; è considerata come una pratica sacra poiché il suo intento non è altro che la completa realizzazione dell’uomo, ivi compresa la sua parte più inconscia. Chang Yen-yuan, nel suo celebre Li-tai ming-hua ci dice: «La pittura completa la cultura, regola le relazioni umane ed esplora il mistero dell’universo. Il suo valore uguaglia quello dei Sei Canoni; e, come l’alternarsi delle stagioni, regola il ritmo della natura e dell’uomo».

Gli espressionisti aspirano a un’arte etica e critica, per non abbandonarsi alla rassegnazione

Lungi da ogni sentimentalismo meccanicamente amato da un’arte di evasione o fine a se stessa, gli espressionisti compiranno un’arte etica che attribuirà valore a un linguaggio che si pone operazionalmente nell’esperienza del vissuto, assolvendo a una funzione di catarsi, di purificazione. È un’arte che, mostrandoci l’anima e il corpo dilaniati dalla ritualizzazione delle meschinità umane, intende comunque, offrendosi propositivamente come critica al dato di fatto, non abbandonarsi passivamente alla rassegnazione.

Van Gogh assume l’etica degli espressionisti

È di questa idealità etica che Van Gogh si è sempre nutrito, anticipando l’Espressionismo non solo sul piano tecnico ed estetico: attraverso il linguaggio della pittura vorrebbe che l’umanità respirasse, concretamente, un nuovo mondo non più indifferente di fronte ai suoi stessi limiti. Occorre però ottimismo per credere fermamente che si possa aggiungere, alla storia dell’uomo, una pagina diversa:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.154
Vivere più musicalmente

… si finirà con l’averne abbastanza del cinismo, dello scetticismo, delle menzogne e si desidererà vivere più musicalmente. Come avverrà ciò, e cosa troveremo? Sarebbe curioso poterlo predire, ma è ancor meglio sentirlo piuttosto che non vedere nel futuro altro che catastrofi, che non mancheranno di caderci addosso al pari dei terribili fulmini del mondo moderno e della civilizzazione attraverso una rivoluzione o una guerra o il crollo degli Stati infraciditi.

Nell’arte giapponese il saggio studia il filo d’erba e sa disegnare tutto

Studiando l’arte giapponese si vede un uomo indiscutibilmente saggio, filosofo e intelligente, che passa il suo tempo a fare che? A studiare la distanza fra la terra e la luna? No. A studiare la politica di Bismarck? No. A studiare un unico filo d’erba. Ma quest’unico filo d’erba lo conduce a disegnare tutte le piante, e poi le stagioni, e le grandi vie del paesaggio, e infine gli animali, e poi la figura umana. Così passa la sua vita e la sua vita è troppo breve per arrivare a tutto. Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano i giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più gai e felici, e senza tornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione.

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.134

Van Gogh è estremamente umile: «è una prospettiva molto triste quella di sapere che forse la pittura che faccio non avrà mai nessun valore». Si trascina quotidianamente verso un’arte che lo costringa a intraprendere un rapporto umile con la natura.

Umiltà nella pittura e nel rapporto con la natura
Utagawa Hiroshige, Provincia di Awa, Vortice di Naruto,  dalla serie Vedute famose di oltre 60 province, 1855

Per questo guarda con entusiasmo all’arte orientale (in particolar modo a quella giapponese), la sola che umilmente intrattiene con la natura un rapporto stabilmente totale, che rimanda al desiderio di entrare nell’inaccessibile, e di non sfuggire agli ineluttabili anfratti dei suoi misteri. Osservare l’infinità delle cose misteriose della natura, richiede una visione che non creda fermamente che la natura sia dotata di elementi banali.

Contro la banalizzazione dell’umile filo d’erba

Ciò che renderebbe banale anche solo un filo d’erba è osservarlo con banalità, posando su di esso una vista piatta, ordinaria, senza personalità, incapace di soffermarsi pazientemente a esplorarlo, incapace di posare a lungo la propria sensibilità sensistica su di esso.

Viaggiare per non giungere mai a una meta
Utagawa Hiroshige, Luna autunnale vista da Seba, dalla serie 69 stazioni di Kiso Kaidō, 1835-37

Dare dignità alla pittura vuol dire per Van Gogh mirare a scoprire e riscoprire viaggiando, infinitamente, in ciò che lo sguardo disvela a poco a poco in ciò che osserva. La sua meta è: non giungere mai a una meta. Convivere per tutta la vita con ciò che di volta in volta, quotidianamente, l’esistenza disvela a contatto con essa. Ci sono tanti luoghi in un filo d’erba su cui posare il proprio sguardo, tante tonalità di colore da individuare, tanta varietà di tratti da tratteggiare, da lumeggiare, tante superfici su cui imprimere la texture delle proprie osservazioni, tanti odori in cui rintracciare gli odori della natura.

Giungere a una sintesi pittorica che esprima la profondità delle cose

Osservare umilmente un umile filo d’erba vuol dire anche aver premura di vivere la propria vita sino all’ultima umile goccia, vuol dire cogliere molti segni e cifre da riscoprire in sé e nel mondo, vuol dire non dilettarsi a banalizzare la propria vita e quella degli altri, vuol dire aver riguardo nei riguardi degli altri e della natura, vuol dire giungere a una sintesi pittorica che si esprima con chiarezza anche quando si tratta di rendere la profondità delle cose:

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo… p.154

Invidio i giapponesi, l’estrema chiarezza di tutte le cose che loro posseggono. Niente è mai noioso e niente pare fatto in fretta. Il loro lavoro è semplice come il respiro, ed essi fanno una figura con pochi tratti sicuri con la stessa facilità che se abbottonassero il gilet.

Perché arrivare a fare una figura in pochi tratti? Perché il gesto pittorico arrivi a eguagliare la semplicità di un respiro, facendo semplicemente respirare, con pochi tratti, tutto il vissuto che un frammento di vita, sia pure modesto, manifesta nel momento in cui è sottoposto a una percezione sensistica, analitica.

Il tratto veloce: una figura in pochi tratti, il vissuto in quel preciso istante come esso è

Il tratto veloce mira a ottenere un segno che abbia deciso di essere ciò che decide di essere. Col tratto veloce si sceglie di ottenere ciò che per un segno si decide al momento che sia. Il tratto veloce genera un segno che desidera portare in sé ciò che ha colto al momento, cioè tutto quello che in quel preciso istante un soggetto gli ha espresso col proprio linguaggio.

Il tratto veloce impone di calcolare bene prima di agire

Prima di agire, il tratto veloce deve aver inteso (velocissimamente) e calcolato la maniera con cui ottenere ciò che di un soggetto ha deciso di cogliere.

La sua responsabilità di non lasciarsi attrarre dalle dispersioni di senso, porta a concepire un segno che si attua essenzialmente per essere quello per cui è stato deciso che sia (sia nella forma che nella sua significanza).

Il tratto veloce è subordinato all’attuazione di un segno visivo che prima di realizzarsi deve, attraverso l’osservazione, arrivare a una sintesi che s’accompagni ad essere espressa in tutta la sua evidenza, come l’effetto finale di una volontà che abbia voluto conoscere profondamente il soggetto da cui ha ricavato la sua condizione segnica.

Il tratto veloce giunge a una sintesi formale penetrante

Il tratto veloce giunge all’espressione di una sintesi formale con un segno penetrante, come marchiato a fuoco all’istante. Appropriato a segnare con prontezza tutti gli elementi prelevati da un’attenta osservazione, li fa confluire nell’attimo gestuale sottoforma di sunto emozionale.

Il tratto veloce è anche gesto espressivo non automatico

Il tratto veloce non solo ha valore di sintesi ma anche di gesto espressivo, liberato dall’automatismo meccanico.

Utagawa Hiroshige, La luna autunnale vista da Ishiyama, dalla serie Otto panorami di Ōmi, 1834

Esser riusciti a tratteggiare con un tratto veloce l’immagine di un albero, vuol dire aver raccolto in qualità di segni, da un elemento effettuale, sostanziale, reale, impressioni analitiche di colore, di forma, di superficie, di volume, di movimento, ecc.

Di un soggetto occorre guardare tutto per arrivare a un tratto veloce che soddisfi la complessità del segno che lo personifichi.

Il tratto veloce, razionale ed emotivo

Col tratto veloce si ottiene un gesto pittorico in grado di riportare tutto ciò che nel reale è stato colto razionalmente, senza reprimere la spontaneità sensistica ed emotiva. Occorre però tener presente che il segno, se è segno, non può mantenersi fisso, appiattito sulla fissità di un tratto che non determini movimento, profondità, superficie, volume, colore.

Il segno orientale, configura lo spazio (mobile) senza bisogno della prospettiva occidentale (statica)

Per questo il segno ci riconduce sostanzialmente a quello orientale. Anzi, il segno è proprio orientale. In particolar modo l’arte giapponese e cinese sono riuscite ad ottenere un segno che da sé solo riesce a configurare spazialmente tutti quegli elementi visuali -di altezza, di profondità, ecc.- che vengono normalmente configurati -nell’arte occidentale- attraverso la prospettiva.

Utagawa Hiroshige, Acquazzone sul ponte Shin Ohashi ad Atake, dalla serie 100 vedute di Edo, 1857

Ma se l’effetto prospettico è predominato da un esito visivo cubico, perciò fisso e stazionario, pesantemente vincolato a una rappresentazione che sposta nello spazio in maniera gradiente tutti gli elementi che ivi vi si rappresentano, conferendo loro un equilibrio statico, fermato al suolo (dalle forme immobili, salde, invariabili), il segno concepito dagli orientali è invece mobile, soggetto visivamente alla mutabilità e alla profondità di campo.

Segno instabile che si mette in azione se osservato

Pur restando bidimensionale sulla superficie, il segno deve essere percettivamente instabile. Osservato, si deve mettere in azione, si deve spingere indietro e in avanti nello spazio, acquistando chiaroscuro, spessore, volume, profondità, spostamento, movimento.

Tutte qualità, queste, che le convenzioni che connotano la prospettiva quattrocentesca non possono dare.

Ernst Gombrich -rifacendosi a Read:

Ernst Gombrich, Arte e illusione. Einaudi, Torino 1987, p.298

Non sempre ci rendiamo conto -scrive Sir Herbert Read- che la teoria della prospettiva sviluppata nel Quattrocento è una convenzione scientifica: è semplicemente un modo per descrivere lo spazio e non ha alcuna validità assoluta.

La prospettiva quattrocentesca è una convenzione scientifica

La prospettiva ci dà uno spazio entro cui il senso di spazialità (che dovrebbe restituirci una spazialità aggredita da effetti atmosferici) resta percettivamente immutato.

La forma resta muta in uno spazio muto

V’è in essa fissità delle forme, nessuna compenetrazione dinamica ed energetica fra spazio e forma, la forma resta muta in uno spazio muto, coagulato in un costrutto spaziale fermo su se stesso, in cui nulla procede oltre se stesso, tutto resta circoscritto in una immagine che non rimanda ad altro da sé.

La prospettiva chiude lo spazio in un luogo chiuso

La prospettiva ci addentra sempre in uno spazio chiuso, tutte le forme e gli spazi in essa e tramite essa rappresentati non continuano ad essere, ma sono già definitivamente stati: la prospettiva non si ricrea nel già creato. La sua dimensione resta a una sola dimensione, il suo spazio non spazia ma si chiude in un luogo chiuso. In esso… le forme non si enunciano oltre il proprio limite: un cubo è un cubo e resta un cubo, ogni forma che passa, suggerendo altro da sé, è lasciata fuori. La prospettiva imprigiona, fa luce solo sulla forma che conduce a se stessa, come un tempo consegnato non al suo naturale decorso ma alla calma di una unidimensionalità dai contorni attaccati alle proprie autodefinizioni.

Sciogliere lo spazio dai vincoli prospettici

Se lo spazio prospettico del Quattrocento non ha validità assoluta, allora tanto vale sciogliere lo spazio da vincoli prospettici che lo fisserebbero alla permanenza dell’immanente.

Katsushika Hokusai, Ejiri in Suruga Province, dalla serie 36 vedute del Monte Fuji, 1830-32

Ecco dunque il segno orientale che asserisce, degnamente, la negazione di ciò che si rifiuta di divenire, e di riconoscere che non v’è principio di Assoluto che possa darci lo spazio come incondizionato dal concetto che tutto è mutevole e nulla perdura eternamente nella propria forma.

La percezione personale è mobile e alterabile

È altrettanto indubbio che la soggettiva visione di ognuno (soggetto a una percezione psicologica della forma, dello spazio, del colore) non può pretendere che ciò che percepisce, a livello visivo, resti immobile, inalterabile.

Il pennello-inchiostro dei cinesi e gli effetti visivi multiformi

Con la sola pratica eserciziale, che concerne nel conseguire tecnicamente innumerevoli effetti cangianti che vi si possono ottenere con la semplice manipolazione del pennello-inchiostro, i pittori cinesi raggiungono effetti visivi multiformi (di cromatismo, di chiaroscuro, di profondità, di movimento, di vicinanza, di lontananza, ecc.), ricorrendo a un segno che non si serve mai, per allargarsi e avanzare nello spazio, della statica raffigurazione prospettica.

Col semplice pennello-inchiostro, pur restando su una rappresentazione bidimensionale, è possibile portare il segno a dilatare, a rigurgitare, a diramare, a stendere, a rarefare, a svolgere, a spagliare, a traboccare, a puntinare, ecc. François Cheng, ne Il vuoto e il Pieno, ci elenca del lavoro del Pennello tutta una serie di proprietà:

François Cheng, Il Vuoto e il Pieno… pp.76-77

(…) cheng-feng, «attacco frontale», ts’eu-feng, «attacco obliquo», che-pi, «a contropelo», heng-pi, «a peli distesi», ts’ a «sfregando», ch’i fu, «dal movimento ondulato», tun-ts’o, «dalla cadenza sincopata», etc. Quanto ai tipi di tratti realizzati dal Pennello, se ne trovano una grande varietà. Ricordiamo che ogni tratto deve possedere la qualità d’un organo vivente: ku-fa, «ossatura», ching-jou, «carne», huoli, «forza», shen-ch’ing, «espressione», ecc.

La grande varietà dei tratti del pennello

kou-le tracciato di contornopai-miao tracciato di figure a linee intere, rafforzate solo in senso dritto

mu-lu tratto «pointilliste» o «tachiste»

kung-pi disegno regolare e applicato, di stile accademico

kan-pi tratto al pennello secco

fei-pai «bianco volante», tracciato rapido e premuto, esprimente un tratto sfrangiato, lacerato dal bianco in mezzo

ts’un tratti modellati di tipo molto vario; i due più importanti sono «canapa sbrogliata» e «all’ascia» tien-t’ai aggiungere punti per rendere un tratto vivo

Questo livello concerne l’estensibile lavoro dell’Inchiostro per sottolineare le tonalità e, di conseguenza, distanza e profondità.

I cinque gradi dell’inchiostro

Circa l’Inchiostro, la tradizione distingue cinque gradi: chiao, «nero bruciato», nung, «concentrato», chung, «cupo», tan, «diluito», ch’ing, «chiaro»; o tre coppie in contrasto: kan-shih, «secco bagnato», tan-nung, «diluito-concentrato», paihei, «bianco-nero».

jan applicazione graduale dell’inchiostro

hsüan acquerello

weng profondamente impregnato

p’o-mo «inchiostro sbriciolato»

p’o-mo «inchiostro infangato»

chi-mo «inchiostri sovrapposti»

Il tocco espressionista di Van Gogh lascia circolare i segni
Katsushika Hokusai, Fine Wind, Clear Morning, dalla serie 36 vedute del Monte Fuji, 1830

Il tocco espressionista di Van Gogh (come il segno cinese e giapponese) garantisce la circolazione dei segni, traccia gli opposti (allontanamento-ravvicinamento, pieno-vuoto, superficie-volume), affida il movimento segnico allo svelamento e velamento di altri segni, ha radici in una bidimensionalità che ha profondità di campo. Dentro al segno ci sono sempre altri segni, il segno si adegua sempre a rintracciare in sé altri segni. Ed è proprio del segno la capacità di strutturare e di ampliare altri segni, muovendosi sempre verso il dispiegarsi del movimento, della profondità di campo.

Il tratto-segno di Van Gogh realizza il contatto diretto uomo-natura

Nel tratto-segno di Van Gogh ci si impadronisce dell’assoluta libertà di ottenere un contatto diretto fra l’uomo e la natura. Il suo tratto-segno s’incammina, s’apre ai sensi recettivi, si lascia attorniare da tutto ciò che è osservabile, si diparte in segni, in accidenti che estraggono dall’incidentalità altre possibilità di rendere l’espressione più espressiva, più ricca cioè di particolarità pittoriche provenienti da una visione sensistica più volte resuscitata, rinnovata.

Effetti cromatici e nuove tonalità della luce grazie al tocco

La pittura di Van Gogh si presenta con innumerevoli effetti cromatici, percettivamente resi cangianti non solo dai loro inusitati accostamenti ma anche dal fatto che la stessa luce, catturata tra gli anfratti del suo magma pittorico, grazie al tocco continua a iscriversi nei colori sempre con nuove tonalità.

Il colore identifica un luogo preciso per un soggetto preciso

Il colore di Van Gogh è il risultato di un profondo rapporto fra l’artista e la natura; il suo colore è la negazione della mera visibilità, è il sintagma di una spremuta, da cui si è fatto scaturire il profondo, il vasto territorio entro cui tutto di sé vive in perenne fibrillazione, è un colore che non resta impassibile di fronte alla fertilità della natura. In quel suo colore non si è nell’ovunque della natura, o da qualche parte, ma in quella precisa parte, non siamo nell’indeterminatezza di un luogo o di un soggetto, ma in quel preciso luogo che in sé accoglie quel preciso soggetto. Con quel colore si decífra la indecifrabilità.

Come nell’arte orientale Van Gogh armonizza il tocco con la forma e con la forza interiore dell’oggetto
Vincent Van Gogh, Frutteto in fiore, 1888, Winterthur, Switzerland, Oskar Reinhart Foundation

Van Gogh non è per metodo e ricerca pittorica agli antipodi dell’arte orientale. La sua complessa architettura cromatica è strettamente legata alla complicata e laboriosa disciplina pittorica orientale. Il procedimento genetico delle sue osservazioni e dei suoi calcoli visivi condotti fra instancabili ragionamenti per armonizzare un singolo tocco cromatico con la forma dell’oggetto analizzato e con la sua forza interiore (portandola dall’interno verso l’esterno) è intransigente. La sua analitica visione non è dissimile, sia metodologicamente sia sostanzialmente, da quella ad esempio del pittore cinese Shih-t’ao; tutti e due cercano di riportare nella propria opera il movimento -mai fermo- dell’organico conflitto generativo che sottostà alla volubile morfologia elementare degli elementi naturali:

François Cheng, Il Vuoto e il Pieno… p.117

Quando gli Antichi disegnavano foglie d’alberi e i punti che le smaltano, distinguevano l’inchiostro scuro da quello concentrato; suggerivano come modelli forme ideografiche (…) oppure foglie di platano, di pino, di larice, di salice; o anche foglie cadenti e oblique, raggruppate ecc.; il tutto per ricreare la tonalità e l’aspetto frusciante di foreste e montagne. Io mi comporto diversamente.

I punti sono vivi e di infinita varietà

Per i punti distinguo, secondo le stagioni, la pioggia, la neve, il vento e il sole; secondo le circostanze, il dritto e il rovescio, lo Ying e lo Yang: poiché i punti son vivi e d’una infinita varietà! Ci sono quelli gonfi d’acqua e d’inchiostro, mossi da un soffio solo; quelli chiusi come un bocciòlo o ramificati come tessuti di fili sottili; quelli ampi e vuoti, secchi e insipidi; quelli esitanti fra inchiostro e non-inchiostro, «bianchi in volo» come fumo; quelli che offrono un’apparenza liscia o trasparente, o bruciata come lacca. Restano solo due punti mai rivelati (in cinese stesso gioco di parole): il punto senza Cielo né Terra che cade, folgorante, come un lampo; il punto luminoso, invisibile, ricco di mistero nel cuore di mille rupi e di diecimila grotte.

La vera Regola non ha affatto un Oriente stabilito

Ah, la vera Regola non ha affatto un Oriente stabilito; i punti si formano secondo il volere del Soffio!

Il tocco si rifà a una gestualità dai sensi vigili, e

Vasilij Kandinskij, Punto, linea, superficie. Adelphi, Milano 1986, p.19

l’occhio aperto e l’orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi esperienze. Da tutte le parti affluiscono voci e il mondo risuona. Come esploratori che si addentrano in paesi nuovi e sconosciuti, noi facciamo scoperte nel “mondo quotidiano”, e il nostro ambiente, altrimenti muto, comincia a parlare in un linguaggio sempre più chiaro. Così i segni morti diventano simboli viventi, e ciò che è morto diventa vivo.

Ed è sorprendente notare come il trattato Punto, linea, superficie abbia molto in comune con la riflessione teorica riscontrabile nel brano sovrariportato (dai Discorsi sulla pittura) del pittore cinese Shih-t’ao, operante durante la dinastia cinese Ts’ing (XVII sec. – XIX sec.).

Kandinskij e Shih-t’ao: analisi capillare delle specificità espressive

In entrambi i casi, il discorso teorico ci conduce, passo dopo passo, a entrare capillarmente nell’universo della raffigurazione pittorica. Ogni elemento è analizzato sia secondo le sue specificità espressive, sia in correlazione con altri elementi che, alla propria specificità espressiva del singolo elemento, ne aggiungono altre, formulate proprio dalle loro interazioni.

Kandinskij afferma:

Vasilij Kandinskij, Punto, linea, superficie… pp. 25-26 Le infinite forme del punto

Se pensato in astratto o immaginato, il punto è idealmente piccolo, idealmente rotondo. È un cerchio idealmente piccolo. Ma sia le sue dimensioni sia i suoi limiti sono relativi. Nella sua forma reale il punto può assumere un numero infinito di figure: la sua forma circolare può diventare dentellata, può sviluppare un’inclinazione verso altre forme geometriche e, infine, verso forme libere. Può avere angoli acuti e può inclinare verso il triangolo. E per il suo bisogno di una relativa immobilità può trasformarsi in quadrato. Le punte, in un contorno dentellato e strappato, possono essere piuttosto piccole, ma anche grandi e stabilire diversi rapporti fra loro. Qui non si possono fissare limiti, e il regno dei punti è sconfinato.

Abbiamo appurato che anche per Kandinskij la configurazione di un punto, sebbene la sua forma si chiuda e si concentri tutta in se stessa, è comunque un segno che non resta mai neutralizzato dall’invariabilità; infatti egli afferma:

Kandinskij: il punto varia la forma e il suono

Le grandezze e le forme del punto variano, e con esse varia il relativo suono del punto astratto.

Il punto oltre a variare di forma, può persino espandersi sulla superficie, può connaturarsi alle dinamiche formali e percettive della superficie; può in virtù della sua variazione

… crescere, diventare superficie e coprire inavvertitamente la superficie di fondo. E dove sarebbe allora il limite fra punto e superficie?

Il punto può crescere e diventare superficie: punto o superficie?

Già! Se il punto finisce per ricoprire tutta la superficie, che cosa abbiamo: un punto divenuto superficie o una superficie divenuta punto? Cosicché il punto, nell’evolversi e nel variare, sino a occupare tutta la superficie, ci evidenzia anche la sua capacità di espansione e dilatazione.

Se Kandinskij mira a puntualizzare nella sua opera ogni singolo elemento pittorico; se ogni singolo elemento pittorico lo caratterizza in relazione agli altri (distinguendolo dagli altri) è perché mira inequivocabilmente a determinare un assetto pittorico in cui la configurazione architetturale di tutti gli elementi pittorici si rivela nella pienezza di un’armonizzazione ordinata, in una organizzazione compositiva entro cui ad ogni singolo elemento pittorico gli si assegna un preciso ruolo in grado di interagire con il carico formale segnico e cromatico degli altri.

Il singolo elemento in Kandinskij è come l’Uno taoista: nasce dall’indistinto ed evolve nelle forme

Il singolo elemento pittorico caratterizzato ha così in Kandinskij la stessa funzione evolutiva dell’Uno taoista: dal caos primigènio delle qualità naturali non ancora separate, giungere alla configurazione dell’Uno (di ogni singolo elemento pittorico), per dare inizio all’evoluzione delle forme:

Lieh-Tzu ovvero Il vero libro della sublime virtù del cavo e del vuoto, in Testi taoisti.  Mondadori, Milano 2009, p.205

… le forme e le qualità naturali erano riunite e non ancora separate: di qui il nome di caos. Caos significa che le creature sono commiste e indifferenziate, non ancora divise l’una dall’altra. A guardarlo non lo vedi, ad ascoltarlo non l’odi, ad afferrarlo non lo prendi: perciò si chiama indistinto. Nell’indistinto non vi sono forme né delimitazioni. L’indistinto si evolse e divenne l’Uno, l’Uno si evolse e divenne il sette, il sette si evolse e divenne il nove. L’evoluzione in nove è finale, poiché evolvendosi ancora diviene l’Uno. L’Uno fu l’inizio dell’evoluzione delle forme…

Il colore espressionista e il segno orientale cercano il movimento

Anche tra gli espressionisti esiste una correlazione con l’arte orientale. Gli espressionisti cercheranno di dare col colore (con impasti e grumi cromatici) tutte quelle valenze di innumerevoli effetti di movimento percettivo e di profondità, tipiche del segno orientale (di un segno cioè più addentro all’osservazione della natura, e più cònsono allo stato d’animo di colui che, osservandola attentamente, se la sente interiormente vibrare).

Il colore dà nuova spazialità grazie al tocco

Nell’Espressionismo infatti il colore diviene (per mezzo del tocco -simile al segno orientale per la sua capacità di dare profondità e movimento al colore) quasi una nuova forma di spazialità: esprime pluralità di movimenti sia verso l’interno (profondità di campo) sia verso l’esterno (espansione percettiva del colore sulla superficie). Il colore si distribuisce sulla superficie in maniera plurima: dà alla forma contenuto, e il contenuto è trattato con pluralistiche fluttuazioni cromatiche. Si verifica pertanto che tante sono le modalità espressive con cui il colore si mette in movimento. L’Espressionismo estende la pittura sino all’effetto di una pluralizzazione della vibratilità cromatica, così come l’arte orientale estenderà il segno all’infinitezza della pluralità. Ma sia il colore per il colore, sia la forma per la forma, entrambi mirano a includere in sé una molteplicità di effetti espressivi stratificati.

Colore e forma cercano effetti espressivi diversificati

-Il colore vuole essere forma (anche quando la forma se la dà a partire da se stesso) e profondità di campo, segno in movimento, in espansione e texturizzazione.

-Il tocco-segno vuole essere il movimento interno ed esterno di ciascun elemento pittorico o tensione di stabilità e instabilità; e può assumere connotazioni di personalizzazione e spersonalizzazione, arrivando persino a muoversi in se stesso come in una geografia di altri segni.

Il colore espressionista, come abbiamo visto, ci riporta al tocco, e il tocco è come se si esprimesse alla stessa stregua dell’efficienza segnica, pluralistica, del segno orientale.

Il tocco sostituisce il segno per dare profondità al colore

Il tocco, instaurandosi al posto del segno, mira a dare più profondità e risonanza al colore, più camminamenti al cammino di effetti cromatici spazializzati, più gesti alla sua gestualità materica, più effetti percettivi da seguire con lo sguardo.

Kandinskij e l’infinità del segno

Inoltre, occorre tener presente che anche Kandinskij, come Van Gogh, cercherà di materializzare nella sua pittura, alla maniera della pittura giapponese e cinese, un universo di segni strategici, ognuno programmato a esprimere, secondo le proprie potenzialità visive ed espressive, una infinità di movimenti e di configurazioni. I suoi due fondamentali trattati (Lo spirituale nell’arte -1909; Punto, linea, superficie -1926) mirano, in maniera capillare e sistematica, a codificare-decodificare-ricodificare tutti quegli elementi visivi che sottostanno alla formazione di un’opera pittorica astratto-concreta.

La visione dell’artista deve entrare nella natura e nel mondo

La visione dell’artista (sia per Van Gogh, sia in seguito per gli espressionisti) deve tentare di affondare nella natura e nel mondo. Attraverso la visione della natura, entrare -anche emotivamente- nelle sue tensioni vitali; ri-crearsi, dai suoi enunciati cosmologici, per poter creare; fare insieme al suo farsi, che vuol dire connettersi ai suoi molteplici movimenti di trasformazione, di elaborazione, condursi all’articolazione della Genesi.

Ogni cosa vibra in maniera polifonica

Van Gogh, che ha perseguito questo fine, non poteva che concepire ogni piccola cosa della natura alla stessa stregua dell’arte pittorica giapponese: ogni piccola cosa vibra in maniera polifonica, poiché in essa v’è il tutto. Per cui, anche a detta di Giordano Bruno,

Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli. Mimesis, Milano 1995, p.42

in base alla conformazione della materia tu potresti scorgere in ogni cosa, benché piccola e incompleta, il mondo, e a maggior ragione il simulacro del mondo, sì che senza motivo possiamo affermare con Anassagora che tutto è in tutto.

«Tutto è in tutto».
In ogni piccola cosa, il mondo

«Tutto è in tutto»: così si comprende come mai anche in Klee nel colore c’è già tutto, forma intesa come movimento percettivo e superficie su cui si intensifica l’atto percettivo della profondità.

Una nuova forma come risposta al vecchio, per superare la tradizione

Una forma nuova è sempre una risposta al vecchio, al vecchio inteso come processo mentale già passato, desueto, e recupero nostalgico di ciò che si rifà alla tradizione, arretramento, ri-assimilazione delle affabulazioni sentimentali sostenute da un pensiero connaturato a una ideologia ferma al passato, e che solo del passato si nutre.

Una forma nuova vive di nuovi impulsi, sottolinea un logos sempre in tensione, un erramento in sé e oltre se stessa, una oscillazione tra lo sradicamento di un processo mentale acquisito e la riorganizzazione di una nuova pars destruens di un sistema formale già escogitato e mitizzato. Ma una nuova forma porta allo spaesamento, ci disordina le nostre convenzioni, ce le mette a soqquadro, ci perturba, ci butta all’aria i nostri unici punti di riferimento, ci de-centra dalle nostre convenzionalità. Ed è per questo che

Vasilij Kandinskij, Franz Marc, Il Cavaliere Azzurro. De Donato, Bari 1967, p.156

a questo punto devo essere preciso. Servirsi di forme sconosciute è per la critica, per il pubblico, e spesso anche per gli artisti, un atto criminoso, una frode. Peraltro, ciò è vero solo quando l’artista adopera queste forme senza essere spinto da una necessità interiore, creando così una finzione di opera, un prodotto senza vita, una cosa morta.

La necessità interiore, anche dello sconosciuto, senza la quale l’arte è solo cosa morta

Quando invece, per esprimere i suoi moti e le sue esperienze interiori l’artista si serve di una forma «sconosciuta» perché questa corrisponde alla sua verità interiore, egli non fa che esercitare il proprio diritto a ricorrere a tutte le forme che sente come intimamente necessarie, si tratti di un oggetto d’uso, di un corpo celeste o di forme già materializzate artisticamente da altri artisti.

fabio d'ambrosio editore
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