La passività della vita si esprime attraverso la bellezza (il Bello sta sempre in posa senza mai scomporsi); la forza e il dinamismo si esprimono attraverso la bruttezza (il Brutto è sempre in movimento, si deforma e,
deformandosi, cangia).
La bellezza è statica (è una forma che più non indica una direzione con cui prenderne altre); la bruttezza è dinamica (è una forma che indica sempre nuove direzioni con cui prenderne altre).
La bellezza è ciò che si vergogna della realtà. Il Bello esige che la natura si trasfiguri in un mondo da essa stessa idealizzato; ciò fa sì che tutto quello che tocca lo falsifica, lo idealizza a tal punto che deve lottare contro la realtà della natura stessa per ottenere un tale risultato: la natura dev’essere concepita lontana dalla realtà da cui proviene e in cui si compie.
Il Brutto invece vi getta in faccia la natura e il mondo al loro stato naturale (o persino violentato dall’uomo): si esprime attraverso i loro implacabili mutamenti; introduce in sé il movimento deformante e coinvolgente di tutte le sue pulsioni connaturate alla temporalità.
Il Bello rinnega tutto ciò che è naturale. Affila la sua razionalità per abbattere la natura e ricostruirne un’altra. Rinnega la natura com’è fatta, non bada a ciò che è ma a ciò che potrebbe essere se fosse metamorfizzata secondo il proprio modo di concepirla.
Il Brutto -per essere- deve produrre disincanto, non deve gratificare il narcisismo del Bello, non deve caratterizzarsi come Bello adottato dai canoni
di una maggioranza massificata.
Il Brutto deve favorire la separazione da ciò di cui la maggioranza gode.
Deve mortificare il processo di soggettivazione e massificazione verso il quale il Bello è palesemente orientato, per imporre la propria asoggettività a qualunque cosa che lotti per la conquista d’una propria autonomia espressiva.
Per il Brutto non v’è nessun mandato d’ordine che possa domarlo a membro sociale massificato, controllato da una cultura egemone. Esso è, piuttosto, orientato a socializzare con una nuova estetica non allineata con
le tradizioni, né identificabile con le richieste narcisistiche del Bello, ispirato al culto di sé e alla stabilizzazione dell’ordine: sedimentato, quest’ultimo,
nell’esercizio effettivo di un Bello fine a se stesso.
Il Bello, che non accetta anomalie su se stesso, mortifica la natura togliendosi (togliendole) di dosso le sue imperfezioni fisiologiche.
Il Bello non vuole avere nulla a che fare con i conflitti della natura: e mai si abbandonerebbe al dipanarsi delle calamità emozionali della propria naturale corporeità.
Il Brutto, invece, è impegnato ad apprendere il mondo a ogni suo processo di crescita.
Il Brutto non lo vediamo distinto da ciò che la vita ha di più compiuto in se stessa: la singolarità dell’irregolarità, modulata in tutte le sue espressioni (zone d’ombre e di inconoscibile, contrasti di luci, forme che mai
prenderanno una propria forma definita), contro l’ordinarietà del Bello, che più non dice, poiché ha già detto -una volta per tutte- ciò che aveva da dire.
Quando non vi è più nessuna cosa cercata che continui a farsi cercare; quando i paradossi della vita non si entusiasmano nel riconoscersi tali; quando le attività motorie di ciò che è stato visto continuano sempre a mostrare ciò che è stato di già visto; quando non traspare nulla di sorprendente in ciò che è stato visto per l’ennesima volta; quando non vi è nulla in ciò che
vediamo che ci inviti a rivederlo più volte; quando tutto è stato veduto alla stessa maniera con cui abbiamo veduto ciò che abbiamo già visto… allora possiamo dire che tutto si è svolto in noi, percettivamente, come uno spirito pienamente pago per essersi estasiato di fronte al Bello: il Bello non mostra nient’altro all’infuori di se stesso, né richiede per essere visto uno sguardo che si muova nell’osservarlo; lo sguardo su di esso deve restare fisso.
Che cosa incorpora il Brutto se non ogni punto di vista dell’esistenza?
In esso si manifestano le forze elementari della vita, ovvero azioni che raccontano storie, storie sortite dal dominio degli imprevisti e dalla profondità
degli stati mentali nati dagli infiniti imprevisti esistenziali.
Il dominio del Bello è basato sulle molteplici pratiche delle istituzioni, sull’individualismo, sulla cornice entro cui si svolge dogmaticamente il linguaggio burocratizzato, sulle normative che sottostanno alla produzione e alle convenzioni che determinano le astuzie di classe.
Il Bello è vincolato alle regole di una grammatica socialmente universalizzata. Seppure si muova in una forma di vita grammaticalizzata da una élite, adotta comunque, come strumento specifico del proprio linguaggio, un vocabolario che non differisce da quello adottato da tutti.
Con il Bello, dunque, non ci diciamo niente che non sia già stato detto da tutti. L’universalità dei suoi principi è tale che non induce neppure concettualmente a violarla. Nulla nel Bello può esprimersi da linguaggi acquisiti
fuori dal suo sistema linguistico.
Il Bello è un linguaggio che si pone di fronte ad altri linguaggi in una posizione ben sicura ed egemone. È un linguaggio che, quando parla con gli altri linguaggi, ha l’abitudine di guardarsi allo specchio, di prendere contatto solo con la sua autoreferenzialità, negando agli altri linguaggi il diritto di riconoscersi in ciò che hanno acquisito -da un luogo diverso dal suo- con l’esperienza propria.
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