Se la pulsione evolutiva e relativistica della vita entra nell’arte, allora arte è movimento, collisione fra la circolazione di multiformità provenienti dalla dimensione sociale e dalla progressiva trasformazione dei pensieri che da essi si dispiegano. L’arte non frequenta più principi di universalità e di assolutismo, non deriva più concettualmente dall’unione fra il verbo divino e chi ne fa le veci ispirandosi ad esso, non è più chiusura in se stessa, misura strappata dai canoni da essa generalizzati e immobilizzati nell’idealizzazione di un’arte divinizzata da un Io divino.
L’arte arriva a dissacrare la sua stessa sacralità, di cui è stata insignita. Lo sguardo del fruitore non è più portato a focalizzarsi
sulla fissità di una figura che tutto a sé accentra, e l’espressione umana non è più tanto idealizzata da attirare tutta l’attenzione su di sé.
Grazie al peccato originale si è compreso che il carattere peculiare della natura è l’eterogeneità. La matrice di tutto nasce dalla mediazione fra positivo e negativo. Tutto avviene tramite l’aggregazione accidentale di agenti non còngrui e divulsi. V’è contiguità e contatto solo fra agenti dissimili: i poli opposti si attraggono. Con il peccato originale l’uomo scopre che non v’è un ordine assoluto da cui tutto muove per mezzo d’una meccanica regolata secondo equilibri conformi a un’armonia prescritta da un’unità imprescindibile.
Il creato, che non è mai completamente creato, edifica e forma attingendo forza dal contatto plurimo con la propria natura, dall’equilibrio combinatorio fra ciò che si distrugge e ciò che si ricrea, dall’energia antagonista e complementare di elementi in contrapposizione.
A partire da questa condizione, il linguaggio babelico incorpora tutte le dissonanze che gli provengono dal
mondo. Il linguaggio si fa pluralistico, come la natura non più idealizzata e ripulita dall’oggettività delle sue forze attive: la natura è consonanza fra discordanza-diversità e concordanza-unità, fra distrutto e riedificato, fra diverso e molteplice, fra difformità e diversificazione, fra eterogeneo e varietà.
Dunque, non può esserci nessuna certezza per chi intenda avventurarsi nel linguaggio. La ricerca di un linguaggio può portare ovunque: nei luoghi oscuri della psiche o nel pantano sanguigno delle viscere. Il linguaggio può agitarsi e conturbarsi per aver visto imbarbarire il mondo, può rodersi il fegato perché si rammarica di non essere capace di cambiare il mondo. Il linguaggio può smarrirsi nelle torbide ombre della memoria, può condensarsi nelle fattezze dell’inconscio, può proporsi come la metafora di una giornata
in Inferno.
Esce fuori dei confini di un ordine pre-confezionato, non è più destinato a rimanere eternamente immobile nella compostezza di un ordinamento regolato da una artificiosa compostezza. Può disobbedire persino a se stesso. Può essere giocoso, convulso, inquietante e terrificante se attinge l’armamentario linguistico dai riti tribali; può interrogarsi sul proprio senso
e disarticolare l’impalcatura sintattica del proprio discorso; può fondersi con l’anacronistico, o con la geometria multiforme e scherzosa dei calembours; può
essere brutale, invadere il proprio corpo semantico con gesti fonici, scomporsi
e ricomporsi nell’idioletto istrionico e stravagante di un ubriaco. Il linguaggio, insomma, esce dalla fissità dei miti e delle parrucche deificate.
Il palcoscenico
su cui compie i suoi gesti di ribellione non è quello della fissità simbolica della Storia, ma è azione di un evento che partecipa dinamicamente a una Storia in atto, in continua evoluzione, in continua trasformazione.
Ed è così che si fa avanti, soprattutto a partire dalle Avanguardie del primo ’900, l’idea di non relegare più il linguaggio nell’immobilità mummificata della tradizione
o nel conformismo pietrificato di un linguaggio comunicazionale borghese.
Si parla e ci si esprime cioè sia fuori dal linguaggio prettamente letterario sia fuori dal linguaggio ordinario, imposto dall’architettura egemone della cultura dominante. Si esce all’aperto, si va incontro alla vita. E la vita è fatta di orrori ed errori, di passioni, di assonanze e dissonanze, di anomalie, di cose
che si spostano, parlano e si lasciano vedere sotto la rutilante luce di una disseminazione isterica. Con l’Avanguardia si lavora alla messa in scena di un
linguaggio brulicante di linguaggi.
Il materiale linguistico assume anche toni provocatori ed eversivi, se intende emanciparsi dalle costrizioni sociali. È crisi
di identità, decostruzione dell’Io, linguaggio psichicamente rotto, depravazione linguistica.
Il linguaggio babelico può anche essere oscuro: non è forse stato condannato all’incomprensibilità? Il castigo divino lo ha ridotto all’incomunicabilità.
La sua concentrazione linguistica si scinde in varie personalità linguistiche, che portano al disorientamento dei significati: una cosa può significare più cose o non significare affatto, o significare e non significare contemporaneamente, o significare il senza-significato.
Il linguaggio babelico si esprime in vari modi. Può esprimersi con un linguaggio rotto, disordinato, catturato nella struttura di un abbaruffamento di voci e di sensi che si contraddicono a vicenda, oppure può ricompaginarsi in un flusso ininterrotto di immagini
che giochino a riorganizzarsi in un discorso puntiforme, frequentato da molteplici frammenti gestuali: parole difficilmente riconoscibili (onomatopee: colore vocalico attraverso il quale si arriva alla codificazione di un suono o di un rumore non necessariamente riconducibili a qualcosa; la sequenza ritmica con cui le sonorità si susseguono può anche non suscitare nessun tipo di immagine, se intende solo suggestionare per eccitare emozioni).
Il linguaggio lirico avanguardistico vuole concordanza e discordanza fra parole, vuole suonare all’orecchio in modo spiacevolmente gradevole o gradevolmente spiacevole, generando una fruizione straniante. La parola non si riferisce più a se stessa, e la ricettività del fruitore non sosta più sul ristagno di un significato che riconduca a se stesso, non realizza l’andamento di un artificio linguistico ammantato di una tradizione congelata che si rifiuta di interpretare il cammino degli eventi e degli imprevisti sociali ed esistenziali, o la percezione delle differenti sensazioni.
La ricettività uditiva cerca il dissonante e il dissomigliante per emergere dallo straordinario e dall’insolito. Se
il linguaggio offre una visione sulle complicazioni sociali, è segno che fa derivare da tutte le sue parole l’osservazione del mondo.
In siffatto linguaggio,
è la parola fuori casta ad acquistare un corpo: il singulto della emarginazione, la volgare espressività della strada, le concrezioni di una collettività alienata, la vertiginosa temporalità del presente si cercano, si annusano, si compenetrano per suggerire la precarietà del mondo su cui l’uomo ha edificato la circolarità di facciata della sua morale.
Uccidere il servilismo della morale, contraddire il consumismo indotto da una cultura che ha per sé stabilito ciò che è bene e male, evadere da un linguaggio rivistaiolo che vende parole da salotto, false e ambigue, votate al pettegolezzo, sovvertire i linguaggi classificati dalle istituzioni e imposti dai mass media, è ciò che il linguaggio babelico, contraddicendo la comunicazione di massa, si propone di effettuare con un serbatoio di parole che caratterizzino i tempi in cui si ritrova ad agire.
Il linguaggio babelico ripudia la parola attempata, posata, la parola che si fonda sulla supremazia della commerciabilità; la parola confezionata dal decoro borghese.
Il linguaggio babelico è anche confusione psichica, sovraccarica di rivolgimenti storici. Tutto per il linguaggio babelico diventa redditizio ai fini dell’espressività: parole come unghie incarnite, parole come fluido animale escrementizio, parole impiastricciate di burlesco umore o di mordace humour, parole pluralizzate dagli sgradevoli odori del quotidiano e dalle sciatterie dei suoi stessi linguaggi. Il linguaggio babelico accoltella la tracotanza della cultura egemone, è amante della ribellione, spregia l’atmosfera spregevole del già fatto e del già tutto detto.
Con il linguaggio babelico ci si muove su un terreno nuovo: non si mira più alla completezza di un discorso, o a qualche cosa di fisso che si rifaccia a degli archetipi che giocano perennemente a celebrare la propria immagine.
La scrittura, non più idealizzata o fantasticata, sprigiona il proprio potenziale di creatività nutrendosi di un linguaggio esuberante, violato dalla strada, intaccato dalla sua spontaneità.
La materia della scrittura non è più l’armonia incorrotta di un ordine ritualmente tracciato dal deus absconditus di un equilibrio inequivocabilmente equilibrato, ma è quella parte dissacralizzata del mondo che si muove nel mucchio di linguaggi sfocati, rumorosi, antagonisti, posseduti dal corpo naturale della pluralità del mondo.
Il linguaggio babelico non resta nella propria forma: la sua forma è troppo diversa anche da se stessa per desiderare di restare rinchiusa nella propria forma, si scinde da ciò che è, la sua forma è ciò che muta: personificazione di un mondo in divenire, scrittura che ha forza per andare ovunque, persino nell’instabilità emotiva e critica della contraddizione. Non agisce secondo una propria regola proveniente da regole che le sono state imposte, ma secondo il ribaltamento delle regole.
È in relazione a ciò che disobbedisce alle regole, tant’è che dimostra di essere in disaccordo col detto
di Aristotele «la poesia non è che imitazione della natura», e d’accordo con quanto Foscolo dirà in contrapposizione ad Aristotele, cioè «noi la crediamo
più falsa che vera».
Nei riguardi di un linguaggio sazio di se stesso (come è la comunicazione di massa o quella produttivistica di scambio), come dovrebbe porsi un linguaggio mai sazio, formalizzato sull’etica della complessità babelica, se non
in qualità di linguaggio indignato, critico, emancipatore del suo stesso sistema linguistico?
Se il linguaggio babelico sollecita alla rivolta del linguaggio, è perché è contro ogni predicazione linguistica che si ponga, sul piano della comunicazione, radicalmente dogmatica, chiusa, settaria.
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