Ritroviamo la bipolarità dialogica anche fra le diverse posizioni ideologiche che hanno contribuito a sostenerla.
L’architettura espressionista si è sempre mossa e dibattuta tra due poli opposti: da una parte l’architettura deve tendere verso la disciplinazione
d’una forma che miri all’organizzazione di una formulazione strutturale spontaneistica, dall’altra parte a una struttura razionalizzata che non sia deficitaria neppure di un certo processo di standardizzazione.
La diatríba fra Hermann Muthesius e Van de Velde (ovvero fra standardizzazione e individualismo) nata nel 1914, all’interno dell’associazione Deutscher Werkbund, fondata nel 1907 dallo stesso Muthesius, può essere assunta a simbolo dell’architettura espressionista.
Muthesius, stando a quanto riferisce Pevsner, parteggia per la standardizzazione (typisierung), «intesa come concentrazione di forze» attinte da «secoli di civiltà armonica».
Tali forze andrebbero ricontestualizzate, includendole in un processo progettuale che miri consapevolmente a creare un ponte fra artigianato e industria, il cui intento -che era alla base dello statuto del Deutscher Werkbund– era fondamentalmente «nobilitare il lavoro artigiano, collegandolo con l’arte e con l’industria», mettendo «assieme gli sforzi e le tendenze verso il lavoro di qualità esistenti nel mondo del lavoro»
diffondendo un gusto sicuro ed accettabile dai più;
mentre Van de Velde, contrariamente, è per la libertà e l’autonomia dell’architetto, inteso quest’ultimo come artista e, in quanto tale, non può che opporsi
Nikolaus Pevsner, L’architettura moderna e il
design. Da William Morris alla Bauhaus. Einaudi, Torino 1969, pp.21-22a qualsiasi canone fisso e alla standardizzazione. L’artista è essenzialmente e intimamente un individualista appassionato, un creatore spontaneo. Egli non si sottoporrà mai volontariamente ad una disciplina che gli imponga delle norme e dei canoni.
Ebbene, queste due polarità -razionalistica (progettualmente finalizzata
al connubio fra artigianato e industria), e lirica (protesa a liberare l’architettura da concetti e forme fossilizzatisi nel tempo)- convivono in tutta l’architettura espressionista, in particolar modo in Mendelsohn e in Behrens.
Behrens rappresenta, senz’ombra di dubbio, l’esempio più eclatante del dualismo insito nell’architettura espressionista: passaggio dal razionalismo all’Espressionismo, dall’Espressionismo al razionalismo; e anche compenetrazione simbiotica tra razionalismo ed Espressionismo.
Nella razionalizzazione della fabbrica AEG 1909 (Allgemeine Elektricitäts -Gesellschaft di Emil Rathenau) Behrens, pur ispirandosi per certi versi alla monumentalità egizia, allegoricamente la dissacra, spostando il suo potere simbolico dall’alto al basso.
L’effetto monumentale qui riportato è difatti di ordine funzionale: spazio monumentalmente allargato (trattandosi di una industria) ma rigorosamente
spogliato d’ogni forma ornamentale, anticipando (soprattutto nei capannoni di montaggio realizzati sempre per l’AEG) ciò che Kahn e Gropius avrebbero in seguito realizzato secondo una rigorosa ideologia razionalistica.
La concordanza fra monumentalità egizio-dorica e nuove modalità costruttive, quest’ultime indotte da un inarrestabile processo di industrializzazione, avviene sulla base di non mummificare l’unilateralità che l’architettura potrebbe intraprendere se si alleasse strutturalmente e funzionalmente ad una sola di queste due realtà.
Essendo l’AEG una fabbrica, il recupero di una certa monumentalità classica serve a razionalizzare l’espansione spaziale; la messa in atto di nuove strategie costruttive serve a legare formalmente lo spazio alle esigenze tecnologiche a cui deve andare incontro.
Passato e presente convivono ai fini di una stabilità architettonica atta a soddisfare i bisogni della committenza: tenendo conto che in questo caso la committenza non va, neppure simbolicamente, attribuita al singolo, ma alla comunità, poiché -stando alla funzione della fabbrica- si dovrà realizzare produttivamente energia per i vantaggi di un’intera comunità sociale.
La spazialità classica, equilibratrice, è profanata dall’impiego di nuovi materiali, quali metallo, vetro e cemento.
Metallo, vetro e cemento concorrono a spostare il baricentro dell’ampia spazialità monumentale sulla interrelazione funzionale tra materiale e spazio: i materiali impiegati attenuano la tipica pesantezza della monumentalità, degradando quest’ultima a una fruizione non più simbolica ma funzionale.
Da un lato, per la fabbrica AEG è stato necessario ripulire gli spazi da ogni vizio di forma espressamente libera in vista di un’articolazione di spazi che fossero del tutto funzionali alle esigenze di una fabbrica, dall’altro lato,
Behrens nella realizzazione di un luogo idoneo all’amministrazione centrale della fabbrica di colori Hoechst (1920-1924), pur avendo concepito spazio
e forme secondo esigenze specifiche, non può esimersi dal mettere in atto una estetica confacente al contenuto di una espressività estetico-funzionale:
– predilige il mattone (a effetto caldo di terracotta), più idoneo alla vitalizzazione allegorica di una cattedrale neogotica; l’entrata infatti si slancia
in alto, e lo slancio in alto, dall’effetto verticalizzato, è ancor più accentuato
dall’effetto dei colori dell’arcobaleno, la cui vibratilità cromatica delle superfici -nel provocare un effetto visivo di ascensione senza soluzione di continuità- non fa che smaterializzare la tipica pesantezza del mattone;
– il mattone si colora di colori: sembra quasi che Behrens abbia voluto applicare e trasferire sul mattone la teoria dell’architettura colorata, proclamata da Scheerbart e da Taut, per una architettura di vetro.
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