Un pensiero fisso stitica il pensiero, e vedere come un adulto stitica lo sguardo sul mondo. È alla base dell’Espressionismo ciò che afferma Kandinskij (riguardo al percepire le forme nella loro «risonanza interiore»):
Vasilij Kandinskij, Il problema delle forme in Il Cavaliere Azzurro… p.161L’artista, che sotto molti aspetti rimane simile al bambino per tutta la vita, può percepire più facilmente di chiunque altro la risonanza interiore delle cose.
Il bambino non ancora adotta, per esprimersi, un linguaggio soffocato dalla visione frustrante dell’adulto. La sua comunicazione va al di là del mero desiderio di comunicare, e non tiene strategicamente conto delle strategie che occorrono per comunicare con gli altri.
Il bambino è libero di dire le cose anche secondo un bisogno interiore, dettato al momento: sopravvivendo all’incapacità di essere naturale dell’adulto, egli resta naturale.
Il bambino (che non è sedotto dall’utilizzare il proprio linguaggio per necessità, o perché deve, comunicando, narcisisticamente specchiarsi nell’altro affinché anche nell’altro riveda la propria immagine) non sa cosa sia
giusto o non giusto vedere, egli vede perché è desideroso di vedere. Egli non sa riconoscere il Bello dal Brutto, secondo le categorie dell’adulto. Per egli ogni cosa che gli capiti sotto tiro è bella poiché gli stimola emotivamente il desiderio di osservarla in profonda intimità: gira e rigira l’oggetto lungamente, si espone all’altro (con tutti i suoi sensi), col desiderio di entrargli dentro per captarne, con estrema attenzione, tutti gli elementi che lo rappresentano, che lo caratterizzano.
Ma ciò che in quell’oggetto vede, non è né la sua funzionalità né ciò che visivamente gli offre la sua rappresentazione plastica: in esso vede tutte quelle cose che continuano a rappresentarsi ai suoi sensi come tante cose che cambiano faccia.
Tramite il contatto con esso oggetto, il bambino giunge sempre a scoprire che «ogni forma è multiforme». Vi scopre «sempre nuove e felici qualità». Insomma…
Il bambino ignora l’aspetto pratico-funzionale delle coseil bambino non conosce il fattore pratico-funzionale, perché guarda ogni cosa con occhio non assuefatto e ha ancora integra la facoltà di percepire la cosa come tale: soltanto in seguito, e attraverso una serie di esperienze non raramente tristi, imparerà a conoscere l’aspetto pratico funzionale delle cose. In ogni disegno infantile, senza eccezione, abbiamo dunque una spontanea manifestazione della risonanza interiore dell’oggetto. Gli adulti, in particolare i maestri, si sforzano di far entrare nei bambini l’elemento pratico-funzionale e criticano i loro disegni proprio da questo punto di vista: “Il tuo uomo non può camminare perché ha una gamba sola”; “sulla tua sedia non ci si può sedere perché è sbilenca” e via dicendo. Il bambino ride di sé; in realtà dovrebbe piangere.
Il bambino è tutt’orecchi quando tocca, è tutt’occhi quando ascolta, è tutto tatto quando vede: articola, per il piacere di scoprire, tutti i sensi in uno e uno in tutti. Il suo strumento di percezione è tutto il corpo, di qui il desiderio anale di portarsi alla bocca gli oggetti. Porta innanzi la bocca per sentire com’è fatto l’oggetto quand’ha a vederlo anche col palato. Il suo modo di vedere le cose, di conoscerle, non è stravizzo ma è sempre nuovo, curioso e frugone. Con i suoi sensi vorrebbe entrare dappertutto, vorrebbe ficcarli in ogni dove.
Non v’è una sola picciola cosa che non interessi al bambino, stima ogni oggetto, tiene a tutto, mette attenzione anche là dove non ci sia per l’adulto nulla da pretendere.
Anche se tutte le cose, che abitano un luogo, son state accomodate e apparecchiate secondo una loro funzionalità, e appaiono orchestrate secondo un ordine ben congegnato, il bambino di fronte a tanto ordine non si sente punto inibito a procedere con le sue esplorazioni, giacché
Johann Wolfgang Goethe, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister in Romanzi. Mondadori, Milano 2006, p.156i fanciulli, in una casa bene assestata e ordinata, hanno un istinto non molto differente da quello dei ratti e dei sorci: sorvegliano tutte le crepe e tutti i buchi che possano condurli a qualche leccornia proibita; ci si appassionano con una paura voluttuosa e furtiva, e io ritengo che sia questa una parte notevole della felicità infantile.
Il bambino ci sguazza nel disordine: nella scompostezza ci si trova bene, ed è nel diavolìo che meglio ci si trova a suonare il suo valente sfogo da esploratore. Nell’odore sconveniente di muffa delle cantine, tra le tante cose in quelle riposte alla rinfusa e mescolatamente, la sua fantasia si rianima e ingagliardisce a più non posso, e
Johann Wolfgang Goethe, La vocazione teatrale… p.158qual magica impressione facciano sui bambini le soffitte, le stalle e le stanze appartate, dove, liberi da ogni assillo di maestri, essi godono quasi unicamente di se stessi: sentimento che poi, con l’andar degli anni, a poco a poco si perde…
Lì… la fantasia il bambino non la mette a riposo; lo strumento musicale della sua immaginazione saltabecca, corre, girovaga, retrocede e procede sino a giungere a far tappa in una fantastichería tutta estasi e mulinelli, così tanto in urto con la realtà da procurare visioni sublimi.
Ed è forse un caso che l’immaginazione degli espressionisti giunga a scontorcersi con più acceso vigore proprio là dove le gambe delle sue inquiete visioni corrono su scenari impetuosi, burrascosi, turbolenti, fortunosi? non è forse degli animi più sensibili e meno legati a strutture mentali inibite (come appunto i bambini) la prerogativa di sapervi scorgere infinite forme di vita proprio in quei fenomeni naturali (che l’adulto scansa e il più delle volte aborrisce) per mezzo dei quali la natura scatena scompiglio e sommovimento d’animo?
Wilhelm Meister da ragazzo «si sentiva più attratto» scrive Goethe «verso i testi d’opera, coi loro svariati mutamenti di scena e le loro avventure. Vi trovava mari tempestosi, divinità che scendevano avvolte nelle nuvole, e quei tuoni e quei lampi ch’era la sua suprema felicità».
Friedrich Nietzsche, ci rivela, scrivendoci della sua adolescenza, di aver scritto un dramma in collaborazione con Wilhelm (suo intimissimo amico) che «si intitolava Orkadal, ed era una tragedia o piuttosto una storia cavalleresca e di fantasmi, costellata di banchetti, duelli, assassini, spettri e prodigi».
Quale strana coincidenza vi riscontriamo:
– nei due omonimi nomi: Wilhelm Pinder (amico d’infanzia di Nietzsche) e Wilhelm Meister (protagonista dell’omonimo romanzo di Goethe);
– nelle loro prime passioni coltivate nei riguardi delle opere teatrali;
– nel fatto che tutti e tre (Wilhelm Pinder, Nietzsche e Wilhelm Meister), nel concepire le loro opere teatrali, per quanto desiderino giungere a una loro realizzazione, non arriveranno mai a metterle in scena:
Johann Wolfgang Goethe, La vocazione teatrale… p.163Ora Wilhelm era davvero ben fornito anche per i grossi spettacoli, ed era logico pensare che fosse ormai il momento d’affrontare la recitazione; ma accadde a lui quel che accade tanto frequentemente ai fanciulli: concepiscono arditi piani, fanno grandi preparativi, tentano magari qualcosa, e poi tutto rimane com’era. Proprio questo avvenne a Wilhelm: la gioia più grande gli venne dall’inventare e dall’immaginare…
E Nietzsche, parlando di Orkadal:
Friedrich Nietzsche, La mia vita… p.38Avevamo già dato inizio ai preparativi, io avevo composto una folle ouverture a quattro mani, ma tutto il progetto gradualmente sfumò. La stessa sorte toccò al dramma successivo: La conquista di Troia, scritto fino al second’atto e contenente le contese fra gli dèi. Accarezzai parecchi progetti del genere, perfino una novella dal titolo Morte e perdizione, durante l’ultimo semestre della quarta classe, in cui non potei frequentare la scuola per via di certi dolori alla testa. Tutte le mattine andavo sullo Spechzart, dove concepivo tanti progetti che però di rado giungevano a compimento.
Ma che cosa, in questo caso, fa nobile la fanciullezza? è quella gioia più grande che proviene dall’inventare e dall’immaginare. Portare a termine un progetto, esaurirlo, sarebbe per essa un incomodo. E lo sprezzo per il compiuto non è ciò che palesemente salta agli occhi, osservando un’opera d’arte che abbia in sé scolpita la forza barbara del non-finito?
L’arte espressionista è l’apoteosi di quel sincero stato d’animo che si cala, per osservare il mondo, nel verace occhio di un fanciullino che non chiede altro da se stesso se non di evitare di cadere nel putibondo e costumato occhio del compiuto. L’Espressionismo non tira a sé forme spurgate da ogni impurità, non è per il lustramento delle superfici cromatiche, né per la nitidezza di una composizione smacchiata, depurata; è veleno d’aspide, edera putrefatta, piaga serpiginosa, allergica al disinfettante, al detersivo, è il ritratto interiore dell’incompiuto di ciò che appare compiuto.
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