Fornire ai sensi più sensi, per condurli a sentire meglio l’esistenza, era anche un’esigenza sentita da tutto il gruppo de Il ponte (Die Brücke, 1905). Ed era del tutto inevitabile che gli artisti della Brücke sentissero su di sé, con più forza, l’orrore della guerra. Coi sensi acuiti, tutto si amplifica.
Se la loro pittura si sporca di colori, lordati a loro volta da un urlo sia doloroso sia indignato, «è che l’uomo non è una creatura mansueta». Se gli espressionisti francesi, i Fauves, accordano al colore la vívida carnalità di una natura che si accende di fiero, aggressivo, irrefrenabile e impetuoso erotismo, gli espressionisti della Brücke oltraggiano il colore con tonalità tòssiche, rabbiose, deflorate dalla disobbedienza a tingere il colore di erotica piacevolezza.
Se nelle città dei Fauves, i colori appaiono tuffati nel bollore gioviale di una luminosità sempre in festa, nelle città della Brücke il colore è stato offeso da gamme cromatiche che rispondono all’astioso e al tristo, all’acerbo e al disfatto, all’àspide e alla gramigna, al nefàrio e alla faccia scomunicata. Ne La spiaggia di Fécamp -1906, e ne la Fiera a Le Havre -1906 di Albert Marquet, i colori sono persino tenui, come annacquati da una violenta luce solare che ne smorza i toni.
In tutte le opere pittoriche di Raoul Dufy, di Othon Friesz, di André Derain, di Henri Matisse, i colori spiccano sulla superficie della tela grazie alla generosità della loro effervescente brillantezza, briosamente provocata perlopiù dallo sfavillío di colori puri. Tutta la pittura dei Fauves (tranne quella di Maurice Vlaminck) può essere ideologicamente riassunta nella seguente affermazione di Henri Matisse:
Ciò che sogno è un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetto inquietante o preoccupante, che sia per ogni lavoratore cerebrale, per l’uomo d’affari come per l’artista di lettere, per esempio, un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa d’analogo a una buona poltrona che lo riposi delle sue fatiche.
Bisogna pur dire che le forti dinamiche pittoriche dei Fauves (campiture cromatiche non statiche; tonalità violente, inscindibilmente connesse alla realtà multiforme e nervosa del paesaggio metropolitano), sono presenti anche negli artisti della Brücke.
Forme, figure, paesaggi, sono plasmati da un colore che è azione, apertura alle forze vitali del tragico, e al flusso sinestetico della percezione sensoriale.
L’Espressionismo si rifà (come tutte le avanguardie del Novecento) al fascino delle teorie scientifico-filosofiche di Ernst Mach (1838-1916):
La volontà è mossa proprio da ciò che, nei corpi e nell’io, è mutevole.
Nel flusso dello scorrere dell’esistente «anche l’io ha una persistenza solo relativa».
La nostra percezione del reale procede dalla percezione sensoriale. Infatti non sono i corpi che generano le sensazioni, ma sono i complessi di sensazioni che formano i corpi.
Questi sono i presupposti a cui tutto l’Espressionismo fa riferimento per costituire il suo valore estetico: lo sguardo sul reale non può più dipendere dalla visione antropocentrica, universalizzata, considerata come unico valore oggettivato, ma da una visione soggettiva che, convertita a una sinestetica percezione del reale, formulata da un complesso di sensazioni, è in grado di percepire con una sensibilità allargata, capace di spingersi oltre i confini di una percezione attestata solo da una visione convenzionalizzata.
La visione espressionista si serve di uno sguardo congeniale a incentrarsi su un complesso di sensazioni, che fa percepire il reale attraverso una più ampia veduta.
L’occhio espressionista: vuole guardare il reale dall’interno. Vuole essere parte integrante del reale; sentire ciò che il reale sente; sentire il reale con l’impegnarsi a guardare nelle connessioni tra il dentro e il fuori. Nell’Espressionismo: l’Io è morto insieme alla sua visione deificata. La percezione è stata finalmente disancorata da ciò che la legge di un Dio imponeva.
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