Non v’è dubbio che con la modernità, a partire dal Romanticismo, l’arte abbia sentito l’urgenza di spingersi nelle vertigini dell’infinito. Tentare direzioni che non portino in nessun luogo definito o da definire, creare forme di pensiero in rapporto a ciò che di indispensabile sopravvive nel concetto stesso di infinito, mostrare che non esistono definizioni in grado di dare una definizione a ciò che prevale nella interpretazione dell’infinito, è segno di non voler dare all’apparenza delle cose un’apparenza, ma un movimento, una vibrazione, una forza in-potenza tirata fuori dal profondo e non dalla superficie.
Non vi sono forme in grado di restituire l’indefinibilità dell’infinito, poiché l’infinito non si realizza in nessuna forma né trasporta in sé forme.
L’infinito visualizza ciò che non è possibile visualizzare, non è la visualizzazione plastica di un’immagine, ma la proiezione di un pensiero senza dimensioni fisiche e senza forme rattratte nelle proprie forme, ma il moto plastico di forze inarrestabili che portano allo sconfinamento dell’immaginabile.
Quando perciò pensiamo all’infinito come trascendentalismo formale e come spazio energetico (e non fisico) in cui vi si trascrive l’inarrestabile proprietà emozionale del pensiero, che si annulla per abbandonarsi totalmente alla percezione di un’energia inorganica, senza forma, fatta di un puro flusso
emozionale, noi non possiamo che associare l’infinito alle soluzioni stilistiche e cromatiche di Kandinskij:
il colore prende tonalità dall’energia cromatica emessa dalla compenetrazione con altri colori, per divenire suono; il cromatismo sonoro trasmette visualità e tattilità attraverso colori che hanno perso la loro caratteristica subalternità alla forma: non sono più colori ma energie cromatiche, movimenti di stati emozionali nati dal tentativo di evocare l’indefinibile, l’intuizione razionale di uno stato emotivo nato dall’indefinibile percezione dell’infinito.
In Kandinskij il colore viene colorato da sonorità cromatiche.
Di fronte a una sua opera, proviamo a immaginarci di essere immersi in quel magma di colori (dal ritmo sonoro di forme che non sono più forme, di linee che non sono più linee ma energie di segni che tracciano la loro gestualità nella manifestazione energetica di uno spazio cosmologico), proviamo a immaginarci gettati lì in mezzo: i colori, le linee, le forme, le superfici, i punti nel compenetrarsi a vicenda, nell’urtare l’uno contro l’altro,
nell’organizzarsi secondo il ritmo dinamico di una materia animata da una propria energia, ricalcata sull’astrazione emotiva delle sensazioni, non li sentiremmo forse emanare, da questi loro movimenti, suoni armonici e inarmonici come animati in una sinfonia dal magma polisonoro?
Ogni colore è un suono, ogni linea è un ritmo, ogni forma è l’emanazione vibratile di una sonorità cromatica che si coagula in animazione sinfonica.
Immersi in quella profondità di infinito, non ci sentiremmo liberati dalla nostra corporeità, non vivremmo il colore come suono, emesso dalla fantasmagoria di visioni mentali?
Nella mente tutto può prender forma senza esser forma, tutto può divenire colorato senza colorarsi di nulla. La percezione della mente è cosmica, perciò ciò che ci dà da vedere non sono che immagini provenienti dalla profondità della sua infinitezza. Le forme mentali, emozionali ci comunicano immagini che sono parlate e visualizzate da sensazioni, e una sensazione è
di per sé indefinita. L’immagine emanata da una sensazione può avere soltanto una forma lirica, può aprire soltanto la via a immagini indefinite e perciò infinite. E qual è lo scenario abituale che l’infinito ci mostra?
Emil Cioran, Al culmine della disperazione… p.115Nella stupefacente complessità dell’infinito si ritrova, come elemento costitutivo, la negazione categorica della forma, di un progetto chiuso e determinato. Progressione assoluta, l’infinito annulla fatalmente tutto ciò che è consistente, cristallizzato, compiuto.
La negazione categorica della forma e il fascino della fluiditàNon è un caso se l’arte che meglio esprime l’infinito, la musica, dissolve le forme in una fluidità dal fascino strano e ineffabile. La forma tende sempre a dare un carattere assoluto al frammento, a isolarlo in una autonomia e, individualizzandone i contenuti, a eliminare la prospettiva dell’universale e dell’infinito.
Il gusto delle forme e il compiacimento del finitoLe forme esistono solo per sottrarre i contenuti dell’esistenza
al caos e all’anarchia della vertigine dell’infinito. Che le forme abbiano una consistenza illusoria rispetto a questa vertigine lo prova ogni visione più approfondita poiché, al di là delle cristallizzazioni effimere, la realtà appare un’intensa pulsazione. Il gusto delle
forme deriva da un compiacimento del finito, delle seduzioni inconsistenti della limitazione, che mai potranno condurre a rivelazioni metafisiche. La metafisica infatti, così come la musica, nasce dall’esperienza dell’infinito. Tanto l’una quanto l’altra crescono sulle vette e provocano vertigini.
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