L’immersione nella natura fa emergere, dal modus operandi degli espressionisti, un aspetto particolarmente votato al Romanticismo. Lo abbiamo detto, e lo ribadiamo: integrarsi nel sensibile della natura è stato il sogno sia del Romanticismo sia dell’Espressionismo. Il Romanticismo aveva già coraggiosamente alzato lo sguardo all’infinito. L’affermazione della propria individualità non significava più assolutamente un gran che. Quale enorme distanziamento esiste fra la micro-corporeità dell’uomo e la macro-corporeità dell’infinito?
La consapevolezza della micro-corporeità umana viene sentita ancor più profondamente nel momento in cui l’artista romantico si confronta con la percezione dell’infinitudine. Ma questo confronto non gli toglie il coraggio di conformarsi (dinamicamente) alla posizione di osservatore: osservare l’immensurabile infinitezza dell’indeterminato conduce a uscire dal luogo circoscritto dell’individualità:
Carl Gustav Carus, Lettere sulla pittura di paesaggio. Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, p.23(… l’uomo, contemplando il magnifico spettacolo della natura nel suo insieme, diviene consapevole della sua piccolezza, e che egli, sentendo immediatamente che tutto è in Dio, attinge a sua volta l’infinito e rinuncia completamente alla propria esistenza individuale).
La preoccupazione di sentirsi vivi nonostante -mi si conceda l’ossimoro- la percezione dell’enormità della piccolezza insita nell’uomo, provoca nell’artista romantico il desiderio di uscir fuori dagli atteggiamenti abitudinari della sua quotidianità: anche lo sguardo contemplativo si spinge oltre, la sua attenzione all’insieme paesaggistico è l’atto che meglio gli evidenzia la sensazione di trovarsi già a contatto con l’unità nell’infinità del tutto.
La stessa rinuncia all’esistenza individuale la ritroviamo negli espressionisti: «la possibilità di estraniarsi da se stessi, tanto da poter entrare in relazione con l’altro» è quanto dichiara Kirchner in una lettera a Eberhard Grisebach nel 1917. Buttarsi nella natura, immergersi in tutto quello che lì accade, non tenersi più -a contatto con essa- nascosto il proprio corpo, anzi denudarlo, d’accordo con la scelta di trasformarlo così in un organo sensore dalla pelle sufficientemente sensibile a captare ogni minima improvvisazione che possa nascere dalle circostanze naturali della natura, è già, per l’espressionista, voler uscire fuori dai particolari della propria individualità, è coesistere col necessario: è vivere cioè con l’altro da sé.
Il corpo e la percezione della natura
Ma andare incontro alla natura vuol dire anche sentire immediatamente su di sé la propria inconsistenza. Il contatto con la natura ci mette sempre di fronte all’inquietudine dell’interminabile, del copiosissimo, dell’inesauribile.
Eppure…
un simile naufragio non è… una sconfitta, ma una vittoria: ciò che viene altrimenti contemplato solo dallo spirito, ovvero la certezza dell’unità nell’infinità del tutto, diventa quasi percepibile ad occhio nudo; allo stesso tempo, il nostro proprio punto di vista e il nostro rapporto con la natura dovranno essere concepiti in modo sempre più puro.
E che cosa ha significato per l’espressionista il proprio attaccamento ad abusare concretamente (e non solo teoricamente) di una certa selvatichezza che lo facesse sentire quasi un sopravvissuto della giungla? Ecco: estendere alla propria arte quel rapporto con la natura concepito in modo sempre più puro. Nel venire a contatto con la purezza della natura, si spera di riuscire a depurare la più che giusta diffidenza nei confronti degli uomini e nei confronti di se stessi. L’uomo è una proiezione sociale associata a tutti quei vizi che lo mettono in disaccordo con tutto, anche e soprattutto coi suoi simili.
Eccoci dunque al desiderio dell’espressionista di voler ricominciare da capo: risorgere dalle proprie ceneri, ritornare a uno stato di selvatichezza per liberarsi da ogni tentativo di dominio su di sé, imposto dalle caratteristiche di una società assoggettata al proprio clima, che è di sospettosità da parte di tutti.
È con la contemplazione che il romantico reagisce al suo senso di inadeguatezza. La contemplazione romantica è condotta da uno sguardo che ha accettato, con assoluta rassegnazione, l’idea che l’enigma dell’universo debba restare tale perché gli proietti tutte le oscillazioni di un invisibile visibile solo a livello spirituale. La sua contemplazione è spirituale, aspetta con ansiosa trepidazione che l’universo dispieghi ai suoi occhi il proprio mistero, che il romantico non mira neppure a connotarlo come tale. Il mistero dell’infinità del tutto deve restare nella sua oggettività sconosciuto, pieno di incognite, mobile nell’infinito, nulla da imporgli, neppure un concetto che lo limiti a un concetto di infinità.
Il Romanticismo non deve differenziarsi dal mistero dell’infinità del tutto, deve in sé alimentare e allevare quel mistero. E tale mistero non dev’essere neppure menzionato, ma vissuto esclusivamente per sentirselo dentro e, una volta assunto per ciò che è, è da percepire spiritualmente. Se l’ignoto è il vero volto dell’infinità del tutto, allora occorre che nello spirito romantico si radichi l’azione dell’ignoto che coincida con l’osservanza del suo mistero.
Lo spirito romantico deve agire in conformità al mistero dell’infinità del tutto.
Ed è secondo tali prerogative che Novalis afferma:
In quanto conferisco al volgare un alto significato, al comune un aspetto enigmatico, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita, io lo rendo romantico.
L’immersione del romantico nella natura è contemplativa, è con la vista che realizza l’infinità dell’infinito nel finito. Il romantico segue la natura con gli occhi: tra colui che vede e la cosa da egli veduta v’è una misurata distanza, poiché il romantico sa che non può condursi dentro all’infinità del tutto. Essendo quest’ultima infinita nella sua infinità, resta sensisticamente irraggiungibile. Il romantico non può che limitarsi a contemplarla, e
Carl Gustav Carus, Lettere sulla pittura… p.24… nel contemplare ti senti sempre più trasportato in quel paesaggio, credi di respirare l’aria pura e chiara, desideri di camminare tra quegli alberi, pensi di percepire il mormorio dell’acqua. In questo modo, attratto nel cerchio spirituale della misteriosa vita naturale, l’animo si apre e percepisci la vita della natura in eterno movimento. Tutto ciò che è misero e legato all’individualità viene meno, e ti senti rafforzato e sollevato da questa immersione in un ciclo superiore, paragonabile a quella di Achille, divenuto invulnerabile grazie al bagno nello Stige.
Se il romantico osserva la natura (da contemplatore e si protende nell’infinito del finito con lo sguardo della contemplazione) l’espressionista còpula con essa (la sua contemplazione si traduce in una còpula sinestetica, prosegue nella contemplazione corporeamente, aprendosi esplicitamente a una euforica attività sessuale con la natura). Il rapporto con la natura dell’espressionista è attivo e atavico. Il contatto con la natura ch’egli pretende è fisico. La sua contemplazione è erotizzata, implica un coinvolgimento totale di tutti i sensi, è aggressiva nel senso che mira a penetrare la natura per sentirsela dentro; compenetrato da essa vuole a sua volta compenetrarla.
La contemplazione dell’infinità del tutto dell’espressionista cerca l’eiaculazione: non reprime cioè il desiderio di possedere la natura. L’espressionista sprigiona verso di essa energia attiva. La natura è ricca di proteine, va pertanto mangiata con tutto il corpo. Il rapporto con la natura dell’espressionista si trasforma in voglia di sesso: la sua anatomia deve compenetrarsi con quella naturale della natura; i genitali dell’espressionista devono toccare e penetrare quelli della natura, non più favoleggiare sulla sua infinitezza, ma concretizzarla col sentirsela concretamente addosso. La natura dev’essere vissuta, per viverla occorre necessariamente entrare dentro di lei, occorre in essa ritrovare la strada per godersela.
Per l’espressionista il contatto con la natura non deve toccare soltanto i sensi ma anche uno «stato d’animo interiore». Ed è su questo intento che si realizza la sua disciplina pittorica.
Perché lo stato d’animo acquisisca consapevolezza di esser stato toccato nel più profondo, occorre che la corporeità dell’artista giunga a fondersi con quella del paesaggio naturale. Ciò potrebbe però accadere solo se egli si abbandonasse all’ímpeto guida delle sue selvatiche passioni. Tutto ciò fu già eloquentemente vissuto dall’artista romantico, anche se la sua «arte paesistica» deriva da una contemplazione distaccata che, essenzialmente legata allo «stato d’animo interiore», porge agli occhi del fruitore una natura osservata più secondo un principio ideale che posseduta secondo un principio sensistico.
V’è comunque un punto in cui Romanticismo ed Espressionismo si congiungono in particolar modo. L’effettuazione estetica di entrambi avviene sulla consapevolezza che «la bellezza della natura è più divina, la bellezza dell’arte è più umana».
La suggestionabilità della contemplazione romantica, tradotta in arte, è umana quanto il contatto carnale e atavico espressionista, tradotto anch’esso in arte: il lato divino della natura, ascrivibile alla sua essenza arcana, recondita, inconoscibile, viene contrastato dall’arte che è più umana.
Sia l’arte contemplativa (romantica) sia l’arte sensistica (espressionista) aspirano al contatto diretto con la natura. Contattare la natura vuol dire, per entrambi, dover entrare nella sua intimità. Il romantico contatta la natura a distanza, per mezzo della contemplazione; l’espressionista corporeamente e sinesteticamente, per mezzo della compenetrazione.
Di qui il concepimento di un nuovo ideale della bellezza, professato da un nuovo modo di concepire la rappresentazione paesaggistica. Ma come definire la bellezza di un paesaggio naturale e la bellezza di un paesaggio artistico?
La risposta che l’artista romantico Carl Gustav Carus dà a codesto quesito, corrisponde in larga misura a quella che gli espressionisti daranno concretamente tramite la loro arte paesaggistica:
Carl Gustav Carus, Lettere sulla pittura… p.34
La natura è sempre bellaSe si deve infatti ammettere che la natura, in quanto tale, è necessariamente e assolutamente bella, e che tanto più viene riconosciuta bella quanto più si manifesta la sua interiorità, la divinità della sua essenza, allora appare chiaro che la rappresentazione del paesaggio corrisponde già all’idea della bellezza se assolve innanzitutto il compito artistico che le è proprio, vale a dire esprimere la vita affettiva attraverso la rappresentazione di un momento di tutta la vita naturale della terra; e dunque se ciò viene veramente realizzato, il bello viene rappresentato già in questo modo.
Raffigurare la vita affettiva attraverso un momento significa realizzare il belloMa il rapporto tra la bellezza di un paesaggio naturale e la bellezza di un paesaggio artistico si può definire anche nel modo seguente: nella natura il sentimento di una vera e immediata incarnazione dell’essenza divina ci innalza, mentre nell’arte la percezione della divinità dello spirito umano, il quale esprime le sue sensazioni attraverso un copiare o meglio un ricreare le divine forme della natura, ci avvince con legami più fragili, ma al tempo stesso più stretti. La bellezza della natura è più divina, la bellezza dell’arte è più umana, e così diventa chiaro come mai solo attraverso l’arte si schiuda veramente il senso della natura. È come se l’infinita ricchezza della natura fosse scritta in una lingua che l’uomo dovrebbe inizialmente apprendere, e che potrebbe imparare solo in questo modo, ottenendo la traduzione di una parte di queste parole nella sua lingua madre grazie all’ispirazione di uno spirito superiore o all’intervento di uno spirito affine; in questo modo, la vera conoscenza della natura, la scienza della natura, viene preparata e favorita dall’arte.
L’espressionista, la natura non intende sognarla, idealizzarla o contemplarla, ma coglierla in tutta la sua carnalità per condividere con essa piaceri sensuali.
La contemplazione della natura da parte del romantico è sconfinata perché accetta per ciò che è la sua infinità senza chiedere accesso al piacere sensuale.
L’espressionista vive l’emancipazione del corpo della natura, il romantico lascia che la contemplazione trasferisca il suo pensiero speculativo sulla natura tenendosi a distanza, senza perciò toccarle il corpo. Il piacere che ne trae è del tutto platonico.
Eppure, sia il paesaggio romantico che quello espressionista sono stati colti nella loro selvatichezza. Il romantico coglie la natura nella sua vitale infinità, cercando di trarne un’esperienza interiore capace di dilatargli ancor più lo sguardo della contemplazione: si fa, a contatto con essa, acutissimo osservatore, archeologo, botanico.
La rappresentazione paesaggistica romantica si presenta nei seguenti modi:
– la visione è sempre panoramica e di insieme, la veduta è a scena aperta, si mira al colpo d’occhio, si inscena uno scenario meraviglioso in grado di suscitare una sensazione di infinitudine, di sconfinato;
– il colpo d’occhio focalizza:
– ampie vedute di cieli dallo scenario spaziato; un panorama che si dilata, si amplia, si distende in un’atmosfera ariosa, istoriata da un orizzonte misterioso, segreto, mistico;
– il panorama è assorto, meravigliosamente e meticolosamente, in un agglomerato di particolari: tutti gli elementi che concorrono a concertarlo scenograficamente son stati radunati a mo’ di inventario, ricco di stupefacenti minutezze:
piante e alberi di svariate specie appaiono assortiti come in un giardino botanico secondo un ordine disordinato, a suggerire un luogo vergine lasciato respirare nella sua selvatichezza; insieme a tale lussureggiante e selvatica vegetazione, son stati incastonati: torrenti, cascate e cascatelle che, diroccando da ripidi e favolosi monti, si precipitano a valle: i particolari pittorici che le ritraggono… o son ricchi di minuzie o son stati tratteggiati con pennellate a effetto atmosferico: all’occhio dello spettatore sembra quasi di cogliere il loro spumeggiante fragore, i loro scroscianti scintillii;
– l’atmosfera panoramica deve suscitare particolari sensazioni: o di imperturbabilità, placidità, quiete; o di impetuosità, di ímpeto tempestoso, di inquietudine; o di ineffabile letizia, di mitigata piacevolezza; o di offuscata tristezza, di palese malinconia; o di fuggevole infinitezza, di mutevole incommensurabilità;
– dal genere bucolico e arcadico (quietato in un verdeggiamento prospero, vivace, rigoglioso e animato) al genere burrascoso, turbolento, procelloso (panorami boscosi e montani scompigliati da una furia temporalesca, vedute marine in grande agitazione, su cui infuriano mareggiate e rabbuffamenti).
Di fronte a tutto ciò, lo sguardo dello spettatore deve comunque sperdersi, innalzarsi all’infinito, trovarsi nel bisogno di essere completamente rapito da una religiosa contemplazione, lasciarsi condurre nella vastità degli orizzonti, prendendo visione della sua indispensabile infinitezza, lasciarsi disorientare dal suo incircoscritto mistero.
La rappresentazione paesaggistica espressionista prevede:
– un corpo a corpo fra la figura umana e l’insieme paesaggistico: la figura deve spingersi nel paesaggio a percepire ogni forma di sensazione corporea;
– un’anatomia umana disformata, che si impasti e si amalgami con la vegetazione paesaggistica;
– una visione dell’insieme che non induca né alla contemplazione distaccata né alla contemplazione entrata in intimità riflessiva col tutto, ma a una visione che spinga a tuffarsi con tutto il corpo nella naturalità della natura, a sprofondare in essa con tutti i sensi, a cacciarvisi dentro con tutto ciò che si è;
– che figura e paesaggio naturale facciano un bagno insieme nella stessa vasca: l’immergimento reciproco deve avvenire in maniera totale; attuffare la corporeità umana in quella paesaggistica serva a ottenere un’atmosfera pregna di licenziosità e impudicizia, capace di orientare la visione verso un rinnovamento etico oltre che estetico;
– un’anatomia (anche quando si tratta di un nudo femminile) mal foggiata nell’insieme della sua struttura, perché divenuta un corpo unico con la natura;
– un paesaggio quasi sempre degenerato e guasto anche quando è aggredito da campiture cromatiche dalle tinte rutilanti e ardenti;
– paesaggio e figura devono essere ravvivati e/o ammortiti da un impasto di colori sfacciati, sempre contrastanti: vivaci e torbi, gai e smortati, accesi e spenti, caldi e freddi, tenui e forti, cangianti e intorbati;
– colori schiaffeggiati, frustati, sparati, scaraventati: a suggerire una pittura en plein air ottenuta e abusata da un selvaggio.
Ciò che emerge sempre di sorpresa dall’Espressionismo, in particolar modo dalla ritrattistica, è un certo humour nero, dal portamento di un’espressione gettata allo sbaraglio in una crisi di identità. Tutte quelle facce sembrano sortite da una boutique del Grottesco e del burlesco. Il trattamento del segno espressivo è perlopiù applicato con toni acidamente beffeggiatori.
Anche il colore attinge le proprie tonalità a una gamma cromatica che va tragicamente dal chiassone al buffonesco. Colore adoperato non per piacere ma per infastidire.
Spesso anche il paesaggio assume tali caratteristiche del ritratto: il paesaggio espressionista sembra raccogliersi nella rappresentazione di una sua indagine psicologica, pronta a rivelare una sua maniera d’essere eccezionalmente scombussolata da un’impronta fisiognomica colta nel capriccioso, nell’indomabile, nel volubile, nel selvatico, nel verace. Il paesaggio indossa i panni di una umanità deflorata da una geografia sociale indesiderata, per questo lo si ritrae disimpacciato e disinvolto: un corpo terroso, messo sossopra, dissestato, colto nei suoi impulsi barbarici, che non ha certamente da offrire agli occhi delizie paradisiache, ma che si ribella al precostituito con tutta la sua potenza irrefrenabile e liberatoria. Il paesaggio espressionista è, dunque, anche questo: il terrificante che vuole terrificare, lo scompiglio che vuole scompigliare, il turbamento che vuole turbare, e, ancora, sregolatezza, stravolgimento, burrasca.
Nel paesaggio espressionista siamo, brutalmente, in quel fondo di aspra potenza sensuale che si anima di violenza; violenza che liquida il paesaggio fermo, immutabile, permanente; violenza che ingravida il paesaggio con una liberazione cromatica che le viene dal trabocco inacerbito, dal rompicollo disacconcio, dall’anfratto disabbellito e diruto.
In pratica, siamo in un paesaggio nemico del quieto-vivere, pieno di vizi, di disgregazione sociale, di sensualità praticata allo stato brado e puro.
Il paesaggio espressionista nasce e vive nella contingenza, la forma appare immessa nella presenza vitale (e non nella trascendenza di una natura idealizzata) di un mondo al naturale, entro il quale la figura dell’uomo è tornata alle origini.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.