L’Espressionismo non è un’arte invulnerabile, non toccabile dalla corporeità mutilata dei rapporti umani: dell’uomo in rapporto alla sua città, dell’uomo in rapporto alla natura, dell’uomo in rapporto al suo simile. Il suo camminamento estetico non vive nell’habitat extraumano di un sentimentalismo fermato in una immobilità aeterna, né in un pensiero sbattuto sullo sfondo di una immobilità senza tempo. La sua arte non patteggia con un fare che crei rifacendosi all’unità sistematica dei numeri. Non guarda il mondo da una posizione divina e astratta. Il suo rigorismo per il primitivismo assurge al rango di un pensiero che si spinge oltre la totalità isolata del punto fermo. La materia estetica viene umiliata, perché proviene da un mondo umiliato, e perciò… il suo groviglio cromatico è grumoso ed esorbitante: in esso predomina un senso di disfacimento, di deformato, una estetica dello scatenamento di un magma psichico ossessivo, tramite cui l’ordine turbato, riservato all’ostilità della natura e alla sfrenatezza dei suoi elementi, diviene la forma di ogni sorta di forme, calata in un disordine apocalittico, essenzialmente predominato da una disorganizzazione formale tragica.
In un’opera pittorica espressionista, il dramma umano è ínsito nel materiale cromatico utilizzato, cosicché il colore è come se avesse lasciato ferite sul proprio corpo. Colore visto dall’interno, colore che porta alla fruibilità di figure mancate, provocatoriamente trasformate in un misero corrompimento dell’ossa, in posture in rovina… dalle carni diroccate.
Il colore espressionista ci parla della necessità di impiegare la tonalità giusta per formulare, in termini più precisi, l’espressione di una forma di vita colta nella tragica banalità di un mondo quotidianizzato dall’alienazione. Come esprimere la solitudine (di una carne umana) in una forma estetica che non giunga mai a definirsi… se non trasmutandola in corpo legnoso, asfittico, quasi cancellato dall’esistenza? L’arte espressionista si batte per non essere ciò che l’arte in genere ha voluto essere: futilmente bella e dilettevole.
Arte dunque in cui non c’è niente di artistico, in senso classico.
Infatti v’è nell’Espressionismo un’assunzione programmaticamente incontrollata di colori intossicati, che èsulano dal Bello estetico;
in essi si manifestano, visibilmente, le pulsioni archetipiche della brutalità;
il colore pare provocato da reazioni emotive suscitate da una storia individuale che abbia subíto su di sé gli stati di crisi di un’intera società, di un’intera epoca.
Nell’Espressionismo… che fine ha fatto la coscienza umana? Essa è tutta presa a contraddire la società incivilita e la sua abietta autoreferenzialità. Essa ci mostra la debolezza dell’uomo, accettando per sé, per la propria pratica artistica e letteraria, la lucida, freudiana affermazione che
Sigmund Freud, Il disagio della civiltà. Bollati Boringhieri, Torino 1971, p.247per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società incivilita è continuamente minacciata di distruzione.
Siamo così condotti in un’arte che si assume la responsabilità di intravedere, criticamente, che in futuro (il fatto che l’uomo civilizzato non abbia mai -nel suo presente- avuto occhi per guardare con sguardo critico se stesso) anche la natura subirà categoricamente il cominciamento di una sua sistematica distruzione.
Eppure l’Espressionismo aspira al ritorno alla natura, pur essendo consapevole che
Gottfried Benn, Lettere a Oelze, 1932-1945… p.31il rimpatrio della natura e il ritorno alla natura avverranno in maniera molto diversa da come se la immaginano tutti questi tangheri con le loro fesserie cinematografiche di aurora e tramonto. Non c’è evidentemente proprio nulla che, in bocca all’uomo pubblico, non diventi sozzura e marciume.
Dietro l’artificialità di un falso benessere si aprono squarci sociali di fatti scioccanti. E non è per questo che l’Espressionismo porta lo scenario urbano a svanire nell’ipertensione dell’attimo affollato di desolazione, mostrandoci una umana solitudine emarginata persino dalla sua stessa solitudine?
L’Eva caduta di Georges Rouault, è sola nella sua stanza: non le resta che guardarsi allo specchio per sentirsi meno sola; le sghembe figure, in Postdamer Platz a Berlino, di Ernst Ludwig Kirchner, vagolano come assenti, ognuna assorta nella propria solitudine;
ne La sposa del vento di Oskar Kokoschka, nonostante le due figure risultino amalgamate in un sol corpo, assistiamo comunque alla rappresentazione di due esseri che tra di loro non comunicano: l’uomo, ad occhi aperti, è assorto nei suoi pensieri; la donna, dormiente, pare rapita da un sogno;
in Donna con giacca verde di August Macke, le figure umane hanno smesso di guardarsi, né volgono lo sguardo verso il meraviglioso scorcio panoramico che si profila sullo sfondo: i loro volti sono senza volto, azzerati, ogni particolare anatomico è stato asportato, non esprimono e non comunicano più nulla, su quei volti senza volto… tutto tace.
Di fronte ad anonime figure sbilenche, a strade affollate di spazi spezzati, ad ambienti sfigurati, schizzati a macchie di sporco, a tonalità cromatiche forzate, come violentate da una gestualità distruttiva da cui emergono pennellate degenerate; di fronte a elementi formali che discendono dalla transitorietà di scenari non ben definiti, improntati alla veduta del basso; di fronte a figure anonime e irrilevanti, e a particolari urbanistici, strappati al pluralismo di punti di fuga aprospettici tra linee e colori che arabescano un primitivismo scattante… si prova la sensazione che tutto nell’esistenza umana sia da contraddire e da ripensare.
Nell’Espressionismo persino la parola non risulta affatto godere del suo proprio significato. Il suo rapporto con il senso intrinseco, attribuito a se stessa, è conflittuale. La parola si estende sempre al di là del suo proprio significato, poiché assume su di sé, allegoricamente, le storture provenienti dal dominio patologico della natura umana. Per essa si tratta di finalizzare il proprio senso alle conseguenze dell’affannarsi dannoso dell’uomo.
Il ritratto alla stolidezza del burocratismo borghese, radicalizzato da Christian Morgenstern (1871-1914) con spietato umorismo grottesco, spinto alla necessità di bucare e rompere la sintassi, di infrangerla, perché si affacci la caricatura, la farsa teatralizzata, come critica alla genericità di vite umane, sopraffatte dal nonsenso dell’esistenza;
la visionarietà metropolitana, tramite cui Georg Heym (1887-1912) ci mostra, come attraverso incubi, un cannibalismo sociale, ritualizzato dalla barbàrie industriale, dall’uomo civilizzatosi in un paesaggio esistenziale da egli stesso devastato;
il paesaggio urbano desolante e putrefattivo, dai colori malati, con cui Georg Trakl (1887-1914) descrive una umanità al limite dell’esistenza, come azione martoriata da una quotidianità autunnale, affidata alla memoria storica di un presente doloroso;
il màcabro rituale da patologo esplicitato da una disappassionata vivisezione di carcasse umane, totem (l’uomo) di una fisicità temporale (oggi sono e domani non sarò: sarò una inutile cosa) messo in atto da Gottfried Benn (1886-1956) in Morgue…
confluiscono tutti, prevalentemente, in una struttura linguistica paratattica, articolazioni sintattiche disarticolate, a riflettere schiettamente un discorso geometrizzato da una sintassi disconnessa, degradata a un ritmo frammentato, alla architettura inaccessibile dell’inconscio, alla contaminazione linguistica, al flusso ritmico inquadrato nella dissoluzione della linearità, in cui vi prevale il colorito grottesco, la febbrile intensità del frammento verbale che, recuperato da un lívido lirismo (da cui sortisce una struttura de-strutturata), visualizza tensioni emotive, provocate dal rapporto tra il poeta e il suo tempo.
Nell’arte e nella letteratura espressionista, l’integrità formale subisce un’effrazione; fluisce nella drammaticità di una linea spezzata; dilata il linguaggio; rompe l’andamento lineare del discorso. Nel percorrerlo, è come trovarsi di fronte a una scempiata devastazione, la stessa malvagia devastazione che ucciderà Perla, la città fantastica (il Regno del sogno) descritta da Alfred Kubin nel suo unico romanzo L’altra parte.
Perla è una città in cui ci si perde (così pure l’arte e il linguaggio lirico espressionista) nell’irrazionalità di un incubo e nelle sue visioni allucinanti, sofferte in un ambiente abitato dal danno e dalla moriccia sociale. Perla, precipitata nel guasto dell’anormalità, è l’allegoria di un mondo gettato nello sbrano dello sfasciume, ove
Alfred Kubin, L’altra parte. Adelphi, Milano 2001, pp.92, 264le case si ergevano sulle strade tutte sbilenche e piene d’angoli, e le sporgenze e le rientranze che formavano rimandavano l’eco ripetuta di ogni parola pronunciata ad alta voce.
Una città in cui tutto subisce il flagello dell’ultimo crollo, città che priva la mente di ogni possibile razionalizzazione del vissuto; città in disfacimento, che smatassa fuochi fàtui, che s’accende di spezzamenti, di schianti, di deperimento organico…
Una massa di sporcizia in decomposizione sommerge uomini e coseDall’altura del quartiere francese fluiva lentamente, come un torrente di lava, una massa di sporcizia, di rifiuti, di sangue coagulato, di interiora, di cadaveri e carogne. In quest’amalgama iridato di tutti i colori della decomposizione arrancavano qua e là gli ultimi abitanti del Sogno. Ormai riuscivano solo a balbettare: non erano più in grado di farsi capire, avevano perduto la facoltà di parlare. Erano quasi tutti nudi; gli uomini, più robusti, spingevano le fragili donne nel flusso del putridume in cui esse affondavano, stordite dalle esalazioni. La grande piazza assomigliava a una cloaca gigantesca in cui si spendevano le ultime forze per strangolarsi e mordersi a vicenda fino all’ultimo sangue.
Dai vani delle finestre pendevano rigidi i corpi di spettatori esanimi, i cui sguardi spenti riflettevano quel regno della morte.
Braccia e gambe contorte, dita aperte, rigide, e pugni serrati, ventri gonfi di animali, crani di cavalli con la lingua tumefatta e bluastra protesa fra i lunghi denti gialli, così si faceva avanti, inarrestabile, la falange dello sfacelo. Crudi bagliori illuminavano e animavano quest’apoteosi di Patera.
Una città in cui l’atmosfera franata su un mortifero grigiume evidenzia un assetto urbano raffreddato da strade, edifici e case che comunicano tra di loro come sbadatelli che siano distrattamente incappati in mezzo a corpi sconquassati, urlati da bocche fuor di sé. Una città, che della propria corruzione, del proprio pezzo di muffa e di sfacelo ne fa pompa e spettacolo: una città smangiata da una popolazione colpita da devastanti disturbi sensoriali:
Alfred Kubin, L’altra parte… p.263Gli abitanti del Sogno erano ora colpiti da disturbi della vista. Da principio un alone iridato avvolgeva gli oggetti. Più tardi tutte le proporzioni naturali si falsarono ai loro occhi: scambiavano le casupole per torri di molti piani, false prospettive li ingannavano e provocavano uno stato ansioso, si credevano rinchiusi anche se non lo erano. Avevano l’impressione che gli edifici pendessero verso la strada, o ondeggiassero su fondamenta troppo esili.
La vista allucinata spinge al suicidioLa persona che incontravano si sdoppiava, si triplicava, diventava una folla intera! Alzavano le gambe per scavalcare ostacoli immaginari, tastavano il terreno carponi vaneggiando di avere davanti un precipizio.
Molti caddero vittime di una mania suicida. Ossessionati e tormentati fino al parossismo, erano diventati preda imbelle di sogni in cui si ordinava loro di autodistruggersi. E i superstiti avevano una tale confusione in testa che probabilmente non avvertirono l’amarezza delle loro ultime ore.
Una città che frana sulla propria dichiarazione di nullità, condizionata da ciò che accade in una società che gioca al ruolo di una struttura fatiscente. Kubin, nel raccontarci di Perla, prende a modello una visione schizofrenica, allucinata:
Alfred Kubin, Demoni e visioni notturne. Abscondita, Milano 2004, p.69V’erano giorni in cui sentivo in me un continuo risuonare di passi che si avvicinavano o allontanavano, un sussurro, un gridìo, un fragore come di una grande massa di uomini. Se parlavo con qualcuno, tutto assumeva un duplice senso: la cosa più comune e quotidiana appariva strana e inaudita. Pietre, tronchi d’albero, mucchi di letame erano pieni di una così enorme forza formale che io, per quanto lieto e sereno fosse il mio stato d’animo, non avevo neppure il coraggio di guardarmi intorno, poiché tutti questi oggetti mi venivano incontro come spettri e le larve che mi ghignassero in faccia.
In L’altra parte, non v’è più la narrazione di un fatto, ma l’esposizione cruda del fatto. L’incubo ci viene mostrato più che descritto. Non ci troviamo ad ascoltare una voce che ci racconti un fatto, ma di fronte ad una voce che ci tira dentro alle feroci visioni di una mente tormentata. Le parole visualizzano.
In L’altra parte, vi prevale perciò il vero colorito di una realtà grottesca quale potrebbe essere, allegoricamente, la descrizione di un nucleo sociale in cui si concentrino tutti i peggiori vizi di una intera umanità: molto in essa ci si immagina che sia stato visto, quando invece resta ancora tutto da vedere. Le visioni di Kubin si servono, per concretizzarsi verbalmente, di descrizioni che sembrano pervenire dalla rumorosità di impressionanti incubi vissuti ad occhi aperti.
Visioni rinvenute dal regno ctònio, dal virtuosismo magmatico delle viscere dell’inconscio, dalla scompostezza delle passioni, indisgiungibili dalla disequilibrata fusione tra le manifestazioni di un Io alienato e una mente (rapita dai travedimenti e dalle allucinazioni) scioccata da ciò che ha saputo vedere nel peggio dell’esistenza delle cose… e degli esseri.
Finta e ingannevole… è la città di Perla: l’inganno e il cavillo, non scevri di preziosismi artificiati, hanno ordito il ribrezzo, l’orrore, la paura, in un paesaggio urbano bieco e sinistro. In essa siamo nell’atmosfericità di un simulacrum tetro e squallido, minaccioso, imbalsamato in una materia organica aspra e oscura, prossima al disfacimento.
Nella città di Perla: la nullità è perdizione; la verità è inverosimile; la superficie annichilisce la profondità; l’illusione fa vivere una vita presunta; e tutto sembra terminare, drammaticamente, là dove tutto ha un inizio dalla propria fine. Pare una città costruita da rivenduglioli, stracciaiuoli, rigattieri e trecconi. Quasi una città postmodernista, un bric-à-brac di vetustà, di anticaglie, di viete e muffite rovine, di ràncide vestigia, di cariati oggetti antiquati, per una decorazione esemplarmente fine a se stessa, emarginata dall’assimilazione del vissuto, macchina miniaturamente ciclopica della raffigurazione di un mondo impiombato nella fissità di un tempo che non è mai stato e non è. Una scatola chiusa. Una città soggiogata dal sovrano Patera, che ammansisce e sottomette -a suo vantaggio- tutto e tutti.
L’ordine della città di Perla è disordinato, ovvero è disordine ordinato organicamente dall’ordine del disordine: «Nel Regno del Sogno tutto era sottosopra…».
Si inciampa nella descrittività di un ordine che si sgretola, ed è come se non ci fosse più nesso fra ciò che è stato e ciò che è. Le sue prospettive strambe e sbilenche alle volte risultano stravolte da una percezione in balía di allucinazioni, provocate dagli inganni di un Io sdoppiato, condannato a digradare verso la centralizzazione dell’acentrico:
Alfred Kubin, L’altra parte… p.156
Gli innumerevoli io e la centralizzazione dell’acentrico… trovai anche delle cose strane dentro di me. Constatai con spavento che il mio io era composto di innumerevoli “io”, ognuno dei quali era sempre in agguato dietro l’altro. Ciascuno mi appariva sempre più grande e misterioso, mentre gli ultimi si perdevano nell’ombra, quando tentavo di comprenderli. Ognuno di essi aveva le sue idee particolari. Così, ad esempio, dal punto di vista della vita organica la concezione della morte come fine era giusta, mentre a un livello più alto della conoscenza l’uomo non esisteva affatto, quindi nulla poteva finire.
Eppure in Perla, assorti nell’indolenza, i sensi risultano affinati e perciò ogni oggetto, ogni dettaglio dell’esistenza si rinnova, traccia su di sé la totale mancanza di una forma monolitica, deificata, il suo carattere è laico, non appartiene a nessun ordine formale del già visto, si fa nuovo:
Alfred Kubin, L’altra parte… p.155Al di sopra di ogni altra cosa imparai ad apprezzare il valore dell’indolenza. A un uomo pieno di vitalità occorre, per conquistarla, il lavoro di tutta una vita. Una volta che se n’è gustata la dolcezza, non si può più staccarsene, anche se ciò costa lotte continue. Anch’io cercai allora di immergermi per delle ore nella contemplazione di sassi, di fiori, di animali e di uomini. Il mio potere visivo ne risultò acuito, come già lo erano l’odorato e l’udito. Vennero allora dei grandi giorni, e io scoprii una nuova faccia del mondo del Sogno.
I sensi si affinano e influenzano la menteI sensi, affinati, influenzarono un po’ alla volta l’apparato mentale e lo modificarono. Acquistai una capacità sorprendente di meraviglia. Ogni oggetto, avulso dal rapporto con le altre cose, assumeva un significato nuovo. Il fatto che un qualsiasi corpo arrivasse a me dall’eternità, mi faceva rabbrividire. Il fatto che una cosa fosse proprio così, e non altrimenti, mi riempiva di stupore. Un giorno, davanti a una conchiglia, mi resi conto con la massima chiarezza che il suo modo di esistere non era così sordo come avevo pensato fino a quel momento. E presto mi accadde lo stesso per tutto, per il mondo intero. All’inizio le sensazioni più intense mi venivan prima di addormentarmi o subito dopo il risveglio, quando cioè il corpo era stanco e la vita, in me, si trovava in uno stato crepuscolare. Un mondo, non sempre vivente, doveva essere di continuo ricreato, e sempre nuovo.
I sensi si affinano quando la vita è in torporeSentivo vieppiù il legame comune che c’era in tutte le cose. I colori, gli odori, i suoni e i sapori erano per me intercambiabili. E allora compresi: il mondo è forza d’immaginazione, immaginazione-forza. Dovunque andassi e qualsiasi cosa facessi, mi sforzavo di intensificare le mie gioie e i miei dolori, e in segreto ridevo di entrambi. Infatti sapevo ormai con certezza che il su e giù del pendolo rappresenta un equilibrio e che proprio nell’oscillazione più ampia e violenta esso può più chiaramente essere percepito.
Una certa volta vedevo il mondo come un tappeto di colori meravigliosi, coi contrasti più sorprendenti tutti composti in un’armonia; un’altra volta abbracciavo con lo sguardo un’incommensurabile filigrana di forme. Nelle tenebre mi avvolgevano le note di una sinfonia per organo, in cui i suoni della natura, patetici e delicati, si componevano in accordi comprensibili. Sì, percepivo delle sensazioni del tutto nuove, in uno stato di sonnambulismo. Serbo il ricordo di quel mattino in cui mi sembrò di essere come il centro di un sistema numerico elementare. Mi sentivo astratto, come un punto di equilibrio precario in un sistema di forze. È un nesso di pensieri che non ho mai più ritrovato.
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