La poesia espressionista (così pure il Dadaismo e il Surrealismo) avrà come obiettivo fondamentale l’istituzionalizzazione di una ideologia estetica che esige per sé una poetica condensata sulla critica del sociale e la condanna di quel tipo di attitudine mentale che più caratterizza una società votata a una coscienza (incoscienza) criminale.
In tutta la letteratura d’Avanguardia vi sono pagine e pagine che liberamente e apertamente (ironicamente e drammaticamente), con una certa violenza verbale, si sono scagliate contro
quegli impulsi arcaici sprigionati da una società assoggettata all’inasprimento delittuoso della guerra. L’Espressionismo verbale è presente (solo per citarne
alcuni) in Antonin Artaud, in René Crevel e, in particolar modo, in Benjamin Péret. Tante poesie di Péret sono impregnate di Espressionismo, non è
quindi arbitrariamente che ci rifacciamo a Péret per quanto concerne il senso che si intende dare alla parola rivoluzionaria.
Péret crede alla possibilità di abbattere il delirio di onnipotenza che la crudeltà umana ha eretto sulla propria stupidità. Le sue parole si indignano, si combinano tra di loro -provocatoriamente- come materiali raccattati per strada onde ritrarre immagini grottesche, o raffigurare l’aneddotica del privo di senso; si scagliano contro l’indifferenza e l’imperturbabilità dell’Io, si danno a demolire l’egemonia del qualunquismo estatico, con un materiale verbale
contundente, che miri diritto a un bersaglio. V’è coraggio nelle sue parole, forza che non conosce viltà, un’incircoscritta espansione del concetto di polis
come piazza di costituzionalità e di equanimità sociale. V’è nelle sue parole l’esperienza del dolore, e non la spensieratezza gioiosamente gratuita di parole narcisisticamente innamorate di sé.
La parola rivoluzionaria non sa pascersi dell’indifferenza, guarda sempre oltre se stessa senza mai neutralizzarsi in ciò che osserva. E poiché non
vuole vedere se stessa ma oltre se stessa, parla dell’altro e raccoglie su di sé il circostante.
La parola rivoluzionaria corrisponde al circostante, il mondo cioè entra nella parola rivoluzionaria con tutte le sue anomalie e sofferenze, e trova in essa buoni motivi per esprimersi in consonanza con quanto scaturisce
da un’esistenza che desideri riscattarsi, realizzarsi diversamente da ciò che è, rifarsi.
La parola rivoluzionaria vive l’uomo come il suo proprio senso: si nutre di ciò di cui si nutre l’uomo, soffre di ciò di cui soffre l’uomo, gioisce di ciò di cui gioisce l’uomo.
La parola è rivoluzionaria non solo in quanto parla dell’altro, ma anche in quanto contraddice -all’occorrenza- persino se stessa.
Péret afferma che non potrà mai esserci poesia rivoluzionaria da parte del poeta che non rinunci a parlare di sé. Il poeta che si chiude nel proprio Io ignora (deliberatamente e con spudoratezza) il mondo: non v’è per egli un mondo del mondo, poiché il mondo è egli stesso.
Il poeta deve innanzi tutto prendere coscienza della sua natura e del proprio ruolo nel mondo. Inventore per il quale la scoperta è solo il mezzo per raggiungere una nuova scoperta, deve combattere senza tregua gli dei paralizzanti, accaniti a mantenere l’uomo schiavo delle potenze sociali e delle divinità, che si completano reciprocamente.
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