La torsione dell’arabesco; il complesso plasticismo dei bassorilievi scultorei e degli ornamenti nutriti di febbrile horror vacui; la struttura architettonica reticolata, in cui ogni forma e ogni linea pare smarrirsi nel particolare che ti sembra sempre inatteso, sempre in movimento in uno spazio dotato di prospettive plurime, assunte da un luogo architettonico pieno di sorprese (formali, lineari, cromatiche) che spezzano la musicalità posata e armonica dell’equilibrio; le colonne e le guglie che si muovono visivamente nello spazio come frecce scagliate in alto; gli incroci e le intersecazioni di linearità orientali, esplicitamente e virtuosisticamente geometriche, da cui nasce quel senso di finitezza anche ottenuto dal perpetuum mobile di elementi formali e strutturali che si muovono nello spazio come qualcosa di costruttivo che mai finisce di costruire; il malinconico effetto di chiari e di scuri, dissacrato da luminosità svettanti, da combinazioni disarmoniche che si sostanziano di dilatazioni aprospettiche e di brividi luminosi…
il Gotico anticipa quella «funzione dell’arte» che (secondo Niccolò Cusano –De coniecturis-) «consiste nel suo combinare e aggregare gli elementi (congregat omnia) e quindi nel dare unicità (unitas in pluralitate) e forma al molteplice».
A dare forma al molteplice contribuisce pure l’arabesco. Con l’arabesco si esprimono tutte le potenzialità della natura. Infatti, afferma Hugo:
Victor Hugo, Sul Grottesco. Guerini e associati, Milano 1990, pp.129-130L’arabesco nell’arte ripete il fenomeno della vegetazione nella natura. L’arabesco spunta, cresce, si annoda, si sfoglia, si moltiplica, si rinverdisce, fiorisce, si allaccia a tutti i sogni. L’arabesco è incommensurabile; ha una potenza inaudita di estensione e di ingrandimento; colma gli orizzonti e ne apre altri; raggiunge le profondità luminose con innumerevoli grovigli e, se intrecciate a questa ramaglia la figura umana, l’insieme è vertiginoso; è un’emozione. Si distingue come attraverso una griglia, dietro l’arabesco, tutta la filosofia; la vegetazione vive, l’uomo si panteizza, si crea nel finito una combinazione di infinito, e, di fronte a quest’opera dove c’è dell’impossibile e del vero, l’anima umana freme di un’emozione oscura e suprema.
Con l’arabesco si viaggia tra spazi aperti: ove vi son forme che ondeggiano nell’aria; linee che tracciano un panorama assalito da continui cambiamenti; linee che s’interconnettono con altre linee semplicemente per cambiare direzione cambiando linee e direzioni; linee che tracciano percorsi sempre nuovi, con linee impossibili da codificare; linee tracciate per procedere ovunque vi sia spazio per procedere all’infinito.
L’arabesco è una linea che va in esplorazione di altre linee. È una linea che si colloca in un percorso seguendo il quale non si sa mai dove vada a finire.
La sua condizione di linea, lanciata in direzioni che non portano a raggiungere nessun luogo certo, indica sempre uno svolgersi di linee che paiono non indicare mai forma compiutamente finita: essa è sempre in transito, non si allinea mai alla linea di un solo percorso, il percorso che costruisce è infatti un continuo spostamento da una linea all’altra.
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