Tutto nella geometria euclidèa accade perché essa sia necessaria, essa non sopporta ghirigori, non manipola un’architettura spaziale indiretta ma diretta, non estende la propria linea al di là dei propri confini. Le sue linee devono sempre avere una precisa direzione, esse possono aver luogo solo in uno spazio circoscritto, definito, delimitato.
La geometria euclidèa si muove in se stessa già pensata. Le sue linee possono sì avere rette e curve, ma solo se accadono e si evolvono nello spazio secondo quella conformazione lineare per la quale sono state già pensate.
Che cos’è in fondo la forma geometrica, se non una forma in cui tutti gli elementi, che contribuiscono a renderla tale, devono figurare secondo un preciso coordinamento logico?
In ogni forma geometrica non v’è nulla di spontaneo e di libero: tutto in essa si organizza secondo una elementare forma comunicativa, in cui ogni linea è composta per comunicare esattamente questo e non quello.
Costruire una forma geometrica equivale a formulare una forma che non cambia nel tempo: un quadrato è così com’è, è come ci è stato dato, e nessun elemento in esso potrà produrre una forma e un contenuto altro da sé. Un quadrato sarà sempre un quadrato anche quando esso vi apparirà organizzato in una composizione studiata per provocare illusioni e deformazioni ottiche.
La forma geometrica aderisce sempre a una struttura controllata, ogni tentativo di introdurvi una risonanza segnica diversa dalla sua solita risonanza segnica, risulta vana: la forma geometrica va dove la sua stessa forma la induce a essere (per destinazione ultima ed unica) ciò che è.
La forma geometrica è addestrata a esercitare la propria forma su se stessa, è accentrata sulla propria conservazione strutturale, tutti i suoi elementi sono incardinati su una forma che punta a mostrare solo ed esclusivamente se stessa. Regolarmente contenuta nella sua intelaiatura lineare, si forma separandosi dall’esterno.
La geometria espressionista invece nasce nell’alterazione psicologica della percezione visiva, manifestando una costruzione geometrica fuorviante, senza limitazioni strutturali, poiché avviene tramite la soppressione di esse, abilmente guidata (tale soppressione) da principi irrazionali. E l’irrazionalità, nell’Espressionismo, va vista come impulsione elementare dell’uomo. Tale irrazionalità non comporta freni, è impegnata a liberare il bisogno istintivo di bruciare nel totale appagamento dei bisogni fisiologici, fra cui quello di evacuare un mutamento di forma esuberante sia nel suo processo di decomposizione sia nel suo flusso inarrestabile di elevare la propria forma a una nuova rieducazione di se stessa.
Se la geometria euclidèa annulla in sé la percezione temporale, poiché nel trascorrere del tempo è sempre identica a sé, la geometria espressionista arriva persino a mostrare i suoi vari stadi di demolizione, causati dalla sedimentazione delle sue percezioni spazio-temporali, rilevati dal tempo storico in cui si attua.
Una forma che vive nel suo proprio tempo storico è condannata a guastarsi; non è in grado di dominare la propria forma, poiché la storia la rende alterabile.
La riflessione autocritica sulla propria storia la porta a rappresentare persino la logorrea spaziale-temporale in cui la sua storia sostiene trionfalmente la propria ininterrotta rovina.
La geometria dell’Espressionismo si deforma a seconda degli avvenimenti storici in cui è impegnata a farsi.
Vivendo nella storia, l’Espressionismo si rifiuta di andare in cerca di modelli: lascia indietro il passato classicistico; rifiuta di obbedire a modelli che
si mantengano intatti nella loro matrice di produttività linguistica borghese; elabora un linguaggio espressivo che non porti in sé nessuna automazione linguistica. La sua geometria linguistica penetra nelle frustrazioni dell’uomo, ne assume tutto il senso, semplificando la propria forma in una complessa operazione di reperimento dei linguaggi, come attraverso cartelle cliniche in cui vi sia stata minuziosamente rapportata la contabilità di tutte le malattie che ossessionano l’esercizio storico a cui appartengono.
Se la geometria compositiva dell’Espressionismo risulta perforata da un procedimento espressivo lesionato da un materiale visivo raccattato tra le condizioni ambientali in cui il suo consumo esistenziale avviene, è perché mira a decodificare il vasto sistema esistenziale entro cui il consumo temporale dell’uomo è lasciato all’uso individuale del proprio quotidiano sfacimento.
Se nella geometria euclidèa una linea spezzata deve necessariamente corrispondere a una linea spezzata, dedotta dal suo preciso ed esatto andamento lineare, per l’Espressionismo invece una linea spezzata deve necessariamente corrispondere ad altro da sé.
Non è un caso che la geometria adottata dall’Espressionismo sia quella capace di scendere sino alla configurazione di un uragano. Il torbido, l’oscuro e il contorto convergono in figurazioni tanto scostumate quanto turbinose. V’è in quelle figurazioni fracasso di colori, di figure, di linee, una violenta devastazione spaziale, un tutto che infuria e rumoreggia.
Nell’Espressionismo: la geometria si scontra con il fortunale e il ciclone; gioca a scacchi con la disintegrazione dello spazio; distrugge l’ordine precostituito; sconfina in ciò che è distrutto e distrugge.
Il colore aggredisce la forma, rotolandosi in una còpula gonfia di spasmi e convulsioni.
La geometria dell’Espressionismo: sbanda nel disordine di una contrazione muscolare, dilaga nell’agglomerato di espressioni facciali in contorcimento.
È una geometria che conversa con le emozioni; da esse tira fuori il nascosto, il risultato di ciò che si è sentito nel più profondo dell’essere.
Una geometria che scava sotto la superficie di se stessa, non può che toccare il fondo. L’Espressionismo è ciò che tenta di ritrarre quel fondo, scendendo sino al più basso livello viscerale.
La geometria dell’Espressionismo non è apollinea, ma dionisiaca: essa non si rifà alla grazia astratta di un calcolo matematico, ma alla selvatica corporalità di un movimento libero, in un corpo libero.
Il corpo è la corporeità di tutte le sue visioni di carne: queste si congiungono -nell’Espressionismo- all’umano, lo affliggono nel bene e nel male, lo eccitano con le loro esperienze trascinate al limite, che puntualmente lo elevano ora all’ebbrezza ora alla depressione.
Cosicché… la geometria dionisiaca è anche ciò che sperimenta su di sé il rapporto fra l’umano e il subumano. Il subumano è quella riduzione della corporalità che giunge all’eliminazione totale del suo stato di ebbrezza. La corporalità, in questo caso, cede il passo al tormentoso sintomo di una malattia mentale per la quale non si avverte che un forte senso d’incurabilità del proprio male. Deprivata ed esacerbata, la mente cessa le proprie funzioni in un corpo crollato su se stesso, eroso da traumi esistenziali, ceduto completamente alla tossicità della propria malattia.
Nell’Autoritratto ridente di Richard Gerstl (1908), si evidenzia il subumano: la faccia è deformata da una risata demente, è tutta nell’atteggiamento di un’espressione di beatitudine demenziale che si spezza in un riso che ingoia la faccia dopo averla ben bene masticata: i denti, ben evidenziati, sembrano testimoniare allegoricamente l’atto di quella masticazione: trapela da quel viso masticante un’alta produzione di disperazione incosciente. Infatti, la faccia (corrosa nell’atto di una sconvolgente disperazione) pare uscita dal bagno di acido muriatico: l’anatomia facciale è stata assalita da lesioni emotive protése inconsapevolmente da una psiche devastata.
La geometria nell’Espressionismo è imprecisa, è rudimentale, è sbagliata, commette errori nel farsi spazio nel proprio spazio, è una geometria inimmaginabile, indesiderabile.
In Ludwig Meidner troviamo forme e colori rubati a un incubo. Nelle sue visioni apocalittiche, sprigionate dal fermento ipercinetico di una Berlino vissuta tra il 1908 e il 1916, Meidner ci dà, nella sua pittura urbanistica, un numero indefinito di colori, forme e linee scoppiate, terremotate: la prospettiva produce effetti di conflagrazione; linee di fuga che si dipartono storpiate, sbilenche, sconvolte da brandelli di linee asserpolate e colori stracarichi di effetti cupi e infernali.
Ogni linea è spezzata da una linea contro linea, ogni fuga prospettica durerà fintanto che quelle linee (irregolarmente miste) percorreranno tutto lo spazio della rappresentazione, guizzando in mezzo a scariche di superfici pittoriche esplodenti, come un escreato espurgato da una angosciosa apocalisse.
Ed è in questi paesaggi apocalittici di una Berlino avvinta nelle ferite di una distruzione bellica, che vi possiamo immaginare ciò che Odemar (protagonista di Sodoma e Berlino di Ivan Goll) potè sentirsi addosso:
Ivan Goll, Sodoma e Berlino… p.76Uscì, percorse chilometri di vortice metallico di strade interminabili. Attraversò ponti screpolati di freddo. Costeggiò viadotti della metropolitana che echeggiavano tutti i clamori della terra. Sotto i piedi il terreno pareva vuoto come una botte. Che il famoso braciere interno si fosse spento come il suo cuore sotto le costole?
Odemar manichino di carta )Non capiva perché doveva sentirsi così vuoto, così inconsistente, manichino di carta anche lui, trascinato dal vento della notte.
Di fronte al sentimento di un uomo socialmente massacrato non cela nessun mistero: tutto intorno a sé si fa limpido e chiaro, anche la tragedia di
una città gettata nei suoi urbanistici orrori non ignora di sé il paesaggio delle proprie rovine. Si assiste alla loro spartizione come fossimo al principio di uno spettacolo tramite cui è possibile già presagire una società che finirà per affondare in una indecorosa anatomia urbanistica ridotta in lacerti.
In una città descrittaci da un espressionista, sempre ci muoveremo nel suo disfacimento. L’organizzazione di un organismo in sfacelo è descritto in tutta la sua incúria.
La distribuzione sociale delle sue bestialità è affidata a un linguaggio che trabocca di descrizioni particolareggiate, che mirano a offendere la nostra vista: quel che vi si descrive, con un linguaggio espressionista, vive sonoramente negli orecchi in una forma che si concretizza visivamente. Tutto il linguaggio ivi utilizzato confluisce in una descrizione che vuol prendere corpo, consegnando così all’udito un’immagine visiva estremamente viva.
L’inizio di Sodoma e Berlino di Ivan Goll, ne è, in questo senso, un esempio emblematico:
Berlino, città del Nord e della Morte, con le finestre brinate come gli occhi dei moribondi, con le pietre che si screpolano, con un suolo che si apre come il ventre delle donne incinte.
Città di glaciale follia contratta nelle tenebre e nelle prigioni, e quanto diversa dalla follia ribollente delle Sicilie dorate! Testa di cemento, teschio di cartapesta ansante su un’uniforme da ussaro inamidata dal sangue coagulato. Testa di recluta imberbe e tubercolotica che si è incollata due baffi da Attila su un viso di lattante. Fronte bassa, tre volte segnata dall’erpice della fame e cinta da una corona di fiori di patata!
Oh! città malata purulenta: la paura della tua plebaglia si stende sulla tua pelle rugosa come lava raffreddata. Vecchia orchessa con le mammelle ballonzolanti sotto una camicia di carta, accecata dalla melma misteriosa, da quale antro millenario sei uscita per venire a stravaccarti sui gobelin d’Europa? Ti riconosco, perdio: bionda Germania di cui scioglievo le lunghe trecce nelle foreste vergini dei tuoi canti epici; come hai potuto invecchiare così presto, tu, pronipote di Ossian e nuora di un Feldwebel a riposo? Come fanno in fretta gli elfi a diventare streghe! Ma vieni, raccontami la storia delle tue disgrazie. Che vuoi farci, è la sorte di tutte le Margherite.
Ci sono tanti dottor Faust da te, paese dove i tram epilettici deragliano sui pendii della via lattea e dove i fiorellini azzurri producono gas asfissianti nei loro pistilli. Paese di pensatori e di ulani! Paese del divino Hölderlin che, nella sua follia, si tagliava le vene per innaffiare un roseto, e del macellaio Haarmann che succhiava il sangue dei suoi biondi amanti nel punto più tenero del collo. Paese di tutte le antitesi e dei sogni più belli. Paese di sottoangeli e di sottufficiali, di caserme che trasudano orina e di sanatori fioriti di glicini. Serra dove si coltivano sante e mandragore. Officina che fabbrica la pietra filosofale e il fosgene.
La città qui è animata da un territorio artificialmente malato. La visione di essa appare sconciata da un brulicame di vite mozze, qui si alleva un mucchio di umani inumati come rifiuti urbani, e paesaggi urbanistici tra uomini scaricati in strade, in cui continuamente si riforma il loro frustràneo andirivieni tra una fossa e una bara.
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