Esser tolti dal mondo vuol dire partorire corpi smembrati, vuol dire cadere nell’impèrio di uno svuotamento di corpo che detta orrori a se stesso per una pèrfida discesa nel pantano delle sue dichiarazioni di morte.
In Gottfried Benn siamo a un parossismo doloroso che ha fatto finanche a pezzi il proprio dolore. La Morgue, infatti, ci viene mostrata con freddo calcolo da cinico e spregiudicato cerusico. Siamo all’enumerazione di un macellamento inarrestabile, frutto di un macchinoso smembramento che càrica di morte i propri meccanismi di attacco, propri di un mondo mattatoio che congegna –
con scaltrezza- la propria guerra macellatrice, lubrificata da uomini-norcíni.
La Morgue è la smorfia caricaturale di un mondo persecutorio, di cui la proliferazione dei corpi smembrati costituisce la forma più immediata della sua
attività di morte. Dinanzi a questi tavoli operatori siamo chiamati a indignarci.
L’esistenza è divenuta carogna, tutto rifluisce verso la decomposizione, tutto si muove verso un punto fermo, tutto si risolve in un profondo lutto. Nella nascita c’è sempre qualcosa di morto, con la nascita si entra già in relazione con la morte, vita-morte e morte-vita, questa ciclicità la si ritrova allegoricamente nel corpo vivisezionato, fatto a pezzi, pezzi di corpo come cose, è l’esistenza fondata dai suoi oggetti vivi: gli uomini, fatti a pezzi si separano dalla vita, anzi vengono a forza separati, disgiunti, ma presto si ricongiungeranno con la vita, torneranno a nuova vita, si ridesteranno nella morte.
Il corpo gettato alla terra presto sarà sostituito da una nuova nascita. Il corpo che si putrefà è un corpo da cui l’esistenza stessa ritroverà la sua gioia e il suo dolore:
Gottfried Benn, Requiem in Morgue. Einaudi, Torino1971, p.3tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
La morte è chiamata a compiersi mediante ciò che una volta fu vita. È la stessa esistenza dell’uomo a costruire la propria vita da un vissuto che viene quotidianamente ucciso dalle sue storie private e collettive.
In Requiem i corpi sono stati vivisezionati ai limiti della decenza estetica:
Il cranio aperto. Il petto squarciato.
(…) Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
L’esistenza, quella tramata dal destino dell’uomo, viene debellata come si debella una malattia. La poesia ci lascia alla sua ambiguità: non ci dice se quei corpi di donne e uomini sono stati ritrovati a pezzi o se sono stati fatti a pezzi (ovvero vivisezionati) dopo essere stati ritrovati.
Aumenta così il senso della metafora:
se sono stati ritrovati già fatti a pezzi, in quei monconi subentra allora la metafora di un reale che converte i vivi all’autodistruzione (affetta dal piacere di uccidere, l’esistenza dell’uomo istituzionalizza, tramite la guerra, la mutilazione: ma tale orrore non ci deve sorprendere più di tanto);
se sono stati vivisezionati dopo esser stati ritrovati, vuol dire che il gesto cerusico si ripropone come quello di un alchimista: si fa a pezzi un corpo quasi a cercare in esso la pietra filosofale con cui tramutare in oro (in vita) quei resti umani: da un cadavere, una nuova vita: «Ora / figliano i corpi un’ultima volta».
Gottfried Benn, Requiem… p.39REQUIEM
Due su ogni tavolo. Di traverso tra loro uomini
e donne. Vicini, nudi, eppur senza strazio.
Il cranio aperto. Il petto squarciato. Ora
figliano i corpi un’ultima volta.
Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
E il tempio d’Iddio e la stalla del demonio
ora petto a petto in fondo a un secchio
ghignano a Golgota e peccato originale.
Il resto giù nelle bare. Tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
Vidi, di due che fornicavano un tempo,
là se ne stava l’avanzo, come sortito da un utero.
Il corpo non vive di un’esistenza propria, e l’anima non è immortale: l’anima e il corpo sopravvivono sino a quando convivono insieme (l’anima della società sono gli individui che la costituiscono, ma gli individui senza la società che li unisce non saprebbero che farsene della propria anima).
La Morgue di Benn è la metafora di un mondo che non riesce a sopravvivere alle proprie rovine. Con la rovina dell’organismo tutto cessa di essere. Il corpo, senza le parti di cui è fatto, è un meccanismo che non dà più il primato alle proprie necessità organiche, è divenuto incapace di costituire nel mondo la propria esistenza.
Se il corpo intero si propone come presente e come avvenire, che farcene di un corpo ridotto in monconi?
Il corpo vivisezionato è l’immagine di un’esistenza che ha rifiutato di darsi un senso. Spezzare un corpo vuol dire mortificarlo sin nelle sue intime energie vitali, più nessun elemento organico può intensificare le proprie azioni, più nulla in sé può condursi ad aspirare a un’esistenza degna d’esser vissuta; in questo assurdo stato di morte, il corpo, anche nei riguardi di se stesso, della sua meccanica organica, è divenuto irrilevante: morto a se stesso e al mondo, è la metafora di chi non può rispondere né ai suoi istinti primari né al brusco
passaggio dalla vita alla morte, è un residuo derelitto dell’esistenza trascorsa.
Nella Morgue di Benn, si hanno più che malati malattie che hanno ucciso; il nemico, l’orrore umano non è stato mai combattuto, il corpo ha subìto un regolamento imposto dagli orrori.
In quel corpo vivisezionato è come se ci fosse sincronismo fra il tempo che si è impiegato a farlo a pezzi e il tempo che ci è voluto per considerarlo, così orribilmente spezzato, una cosa.
Quei monconi appartengono a un corpo che non ha risposto al fine proprio della sua esistenza. L’orrore umano, servito da una cattiva condotta sociale, ha infranto il patto sociale: il corpo della sua attività si è poi piegato verso manovre di morte.
Non v’è corpo straziato che non si annulli. Da una sensazione di corpo straziato non può che derivare, necessariamente, l’insopprimibile sensazione
di dolore.
Il corpo straziato, in Benn, è corpo straziato da una società: corpo in cui confluisce, come essenzialità, la determinazione della violenza.
Nel corpo vive, sedimentata, l’esperienza storica dell’individuo. Mostrare a pezzi il corpo… è dimostrare che è possibile uccidere la storia dell’individuo,
annullandola in un corpo ucciso.
La fine della storia equivale al cessare del corpo, non essendo la storia eterogenea al corpo (è il corpo che assomma in sé gli eventi storici vissuti dall’individuo; è il corpo che, con la sua esistenza, emerge dalla storia); il corpo è storia, poiché è il corpo a determinare la realtà stessa della propria storia e, dunque, un corpo finito in pezzi ha decretato la fine della propria storia.
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