Come definire la natura estetica dell’arte espressionista se non come un’arte che non intende sfuggire alla percezione tattile dell’osservatore? È un’arte che, ferendo l’occhio, si rende sensibile al tatto.
Essendo un’arte prevalentemente materica e magmatica, si alimenta di corporeità. Fiduciosa che possa far toccare all’occhio ciò che la carne sente attraverso pene corporali, la carne vistosamente storpia e sformata è chiamata a configurarsi in tutte le manifestazioni della sua rattristante e angustiosa compagine. Nessuna pittura si spinse così in profondità al dolore come quella espressionista. L’Espressionismo ha coltivato il desiderio di sfigurare la pittura, perché questa urlasse da rovine e smarrimenti. In luogo di uno strappo inferto a una società macchiatasi di crimini, l’Espressionismo ha dato all’arte non la graziosità di un’amabile estetica postulata da una idealistica fede nella razionalità, ma un’arte impetuosa e incestuosa (anche nei riguardi di se stessa), che disprezza tutto ciò che ha ignorato la dolorosa condizione umana.
Per questo nell’Espressionismo la corporeità si ferma a lungo sulla propria angoscia, crea segni di lesioni non risolutori, mortifica il corpo lanciandogli addosso un senso di schiacciamento, di gioco enigmistico irridente, di smembramento in ritagli cromatici: commistione tra l’uccisione di un decorativismo e un implosivo artificio visionario. E c’è pure l’attività dello sbrano e del fèrvido processo di decomposizione.
L’uomo offeso, oltraggiato, spregiato può nell’Espressionismo sperare nella rivalsa. Si disapprova e si condanna nell’arte la piacevolezza gratúita, edonistica, fine a se stessa; ci si immerge nell’imminenza dell’atto fortúito, nei bestiari di un’atmosfera sociale minacciosa, nell’informe sarcasmo dell’informe.
E siamo d’accordo con Antonin Artaud quando afferma, pensando a Van Gogh, che «nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato se non per uscire di fatto dall’inferno». Ciò vale soprattutto per l’Espressionismo, la cui arte è reincarnata da coloro che hanno vissuto nel delirio infernale di una società aberrante. Si dipinge e si scrive per lasciare la testimonianza di un atroce vissuto tra gli uomini:
Alfred Döblin, Senza quartiere. Mondadori, Milano 1979, p.39Karl, fino a oggi non sapevo cosa fossero gli uomini. Quando si vive pacifici come noi, non ci si accorge di come sono. Non si sa nulla di nulla. Misericordia divina, quante ne ho imparato in questi mesi. Soltanto un povero sa che cosa siano gli uomini. Karl, gli uomini stanno un gradino più in basso delle bestie. Quando una bestia si è levata la fame, è soddisfatta e lascia che anche le altre si facciano avanti. Ma l’uomo arraffa e arraffa, e morde chi gli sta d’attorno. È seduto su un trono di pietra, con una spada in mano, e mena colpi. E non c’è uomo che conosca i suoi simili.
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