Ed è dall’espletamento di un’esistenza carcerària che l’Espressionismo accentua il fallimento umano con l’estetica eretica del Grottesco.
In George Grosz, lo scempio umano si fa ancor più evidente: la mostruosità, in Homunkulus -1912, rende euforici pezzi umani, che si muovono sulla scena come stracciati da pèrfide mani; ne la serie de gli assassinii e omicidii, le scene ritratte quasi a volo nel mentre il fatto scellerato si compie, rinviano al gesto inconsulto dell’individuo de-spiritualizzato e a quell’uccidere e uccidersi che si compiace di intrallazzare fra morti-vivi e vivi-morti: il piacere di ingannare giustifica l’inganno, così come il piacere di uccidere giustifica l’uccisione; in Pandemonio -1915-16, Grosz, se utilizza un tratto nervoso, è perché vuol chiamare il senso di angoscia per il suo nome e rivelare che non è affatto compassionevole: c’è tutto un mondo finito in maschere e animalità di cadaveri sobillati dai morti a dirci che ogni uomo è una guerra legata alle proprie trincee; che cosa si propone di dire Grosz in Alle cinque del mattino (Il volto della classe dirigente) -1921, in Suicida -1918, in Scene di strada con un uomo che disegna -1917, in Metropolis -1917, in I comunisti cadono, i titoli salgono (Gott mit uni) -1920, se non raccontare dal vero l’individuo vacuo e spettacolare, la contraffazione delle regole sociali, l’apparente solidarietà tra uomo e uomo, tra l’uomo e la metropoli?
L’arte di Grosz assume l’atteggiamento insofferente di un pensiero critico che urla la sua indignazione. Animata da agenti etici conduce la propria visione a prendere atto degli emarginati, dei derelitti sociali, delle prostitute, degli oppressi da un cattivo regime, degli uccisi, dei massacrati, dei lager.
La miseria umana per Grosz sta tutta in quella stanchezza etica e debolezza psichica di una collettività sociale morta a se stessa. In questo racconto di umanità scempiata, emerge che nella storia dell’uomo non vi sono uomini risolutivi, e che di fronte alla storia (anche quella quotidiana) ognuno è responsabile della propria alienazione e delle proprie scellerate miserie.
L’arte, secondo Grosz, deve andare a recuperare per strada l’irragionevolezza del mondo, la bocca che batte sui denti marci e lotosi delle latrine, per concentrare su se stessa il gioco scurríle dell’esistenza, i suoi portarifiuti, il gesto povero degli ignorati, dei diseredati, con uno stile crudo, inquisitorio, lapídeo:
Per raggiungere uno stile che… riproducesse la durezza e la mancanza di amore drastica e senza fronzoli dei miei oggetti, studiai le manifestazioni drastiche dell’istinto artistico.
Presi a copiare nelle latrine i disegni folkloristici che mi parevano l’espressione diretta e la traduzione più concisa di forti sensazioni. Anche i disegni infantili mi stimolavano per la loro univocità. Pervenni così gradualmente a questo stile tagliente che mi serviva per la traduzione delle mie osservazioni, dettate allora da una assoluta misantropia.
Dunque, di fronte a tutto ciò, anche
scrivere, non importa se in versi o in prosa, significa maneggiare le parole come pietre, come pietre nude, -un mestiere spietato! L’arte non è da “capire”, l’arte si lascia dietro impronte e diffonde germi, questa è la sua legge.
Sì, il poeta espressionista deve maneggiare le parole come pietre (la parola espressionista non è mai parlata, ma gettata in fuori come oggetto contundente, non vuole rappresentare nulla, vuole essere: un segno, una impronta, una lacerazione). Così pure la pittura: la pittura che s’imprime nelle coscienze, deve star fuori da una estetica di mera rappresentazione. Deve darsi come effetto erosivo, caustico; come scatenata da un corpo che abbia subíto un tremendo shock.
Anche se si tratta di una natura morta, la sua rappresentazione non deve comunicare attraverso un’ottica trascendentalista. Un’arte della artificialità è il frutto di un mondo che ha privilegiato, per la costruzione di una propria apparenza estetizzante, l’affascinante falsità di un paradiso artificiale.
L’umanità, a contatto con la propria umanità, è sempre distruttiva. Ecco allora il gesto sociale espressionista, che dice: Perché allora non dichiararlo?
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