Ne Il suono giallo, la novità -come si è visto- consiste nel lasciare piena autonomia all’espressività di ogni singolo elemento, cosicché ognuno di essi, una volta chiamati a cooperare in un unico spazio scenico, possano con il proprio carattere interagire (pur mantenendo la propria autonomia) in sintonia e in simultaneità nello sviluppo del tema, come elementi contrari e autonomi, uniti per il conseguimento di un unico fine.
Così facendo, si ottiene che ogni singolo elemento, operando interattivamente con un altro, contribuisce -con l’accrescimento dei due poli opposti negativo/positivo- anche a valorizzare tutte le proprietà sceniche degli altri, poiché è il contrasto che nell’urto dinamicizza, creando azione, reazione, forza.
Per dirla con Kručënych (da La fonetica del teatro, 1923) «l’azione corale è il principio del teatro».
È tramite la coralità di tutti gli elementi scenici che si può giungere a far musica con i mezzi della scena (Schönberg).
Nella coralità non c’è abbandono, da parte di ogni singolo elemento chiamato in causa, a un Io isolato dal resto di tutti gli elementi scenici.
Ogni elemento scenico diviene movimento plastico solo se si relaziona con lo slancio energetico dell’altro. E la coralità ci rimanda alla collettività, a un incontro dialogico e dialettico tra le parti sociali, tramite cui ognuna delle parti si rifà e si riforma in rapporto alle altre.
Ogni elemento deve essere libero di conservare la propria autonomia, di risuonare della propria essenza, di muoversi sulla scena (in modo proporzionale) sia verso l’interno di se stesso sia verso l’esterno.
La sua autonomia deve sommarsi all’autonomia degli altri elementi e, da questi, deve essere coinvolto a esprimere -contrastatamente- ciò che vive in sé come forma autonoma… eppure formata intersoggettivamente.
Nel dare autonomia a ogni singolo elemento scenico, non vedremo più, ad esempio, che
Arnold Schönberg e Vasilij Kandinskij, Musica e pittura… p.153a un violento moto dell’animo corrisponde immediatamente la sottolineatura di un fortissimo
musicale. A causa di questo principio matematico anche le forme d’effetto vengono costruite su una base meramente esteriore. (…) Ne consegue come logico risultato la limitazione, la unilateralità (=impoverimento) delle forme e dei mezzi che gradualmente diventano ortodossi, sicché la minima variazione appare rivoluzionaria.
Ovviamente, un elemento risulta autonomo quando non risulta situabile in nessun contesto che lo desideri per ciò che interiormente non è; quando è svincolato dall’obbligo di servire a un fine; quando non si presta a essere un elemento che pervenga, irrimediabilmente, alla delimitazione della forma esterna di una cosa, di un oggetto.
In una lettera a Schönberg, scritta nel 1911, Kandinskij esclama: «il colore, la linea in sé e per sé -quale forza e sconfinata bellezza posseggono questi mezzi pittorici!».
Con ciò Kandinskij intende dire che ogni elemento specifico dell’arte pittorica è già di per sé bello. Il contenuto della pittura è già nei suoi specifici elementi che la determinano, e solo in questi può succedere che la pittura prenda avvio, incontrovertibilmente, da una realtà che le è propria.
Con Kandinskij inizia quell’arte concreta che si sorregge sui propri specifici elementi; elementi puramente pittorici, che non si lasciano sopraffare
dalla rappresentazione di una forma prigioniera nel delimitarsi come forma percepibile esteriormente.
L’arte pittorica attinge il proprio materiale pittorico dalla propria sostanza.
La pittura è giunta a utilizzare i suoi «mezzi pittorici in funzione del suo scopo pittorico».
Già Adolf von Hildebrand ne Il problema della forma nelle arti figurative -1893, giunse a dichiarare che «l’opera d’arte è un’entità circoscritta, un complesso di effetti che agiscono l’uno sull’altro e da se stessi, e contrappone alla natura questa entità dotata di esistenza autonoma».
Ma come va intesa in Kandinskij la pittura dotata di esistenza autonoma? Va intesa come ricerca, in tutti gli elementi che la costituiscono, di una «pura risonanza interiore». Ad esempio: per arrivare alla «pura risonanza interiore» di una linea, non deve questa essere usata come «mezzo per delimitare un oggetto».
Essa deve scegliere di tracciare se stessa, dotandosi di una forza ed energia che le sono proprie. Deve recare su di sé tracce di sé, del proprio essere in sé e per sé, restando nella cassa di risonanza delle proprie forze,
senza scomparire nella mera funzionalità di delimitare un oggetto. La sua essenza è tutta nel suo essere specificatamente una linea dotata di una vita propria.
Ma, per ottenere che la linea proceda secondo il suo modo di essere in sé e per sé, occorre portarla
Vasilij Kandinskij, Il problema delle forme, in Vasilij Kandinskij, Franz Marc, Il Cavaliere Azzurro… pp.150-151… in un milieu che ci permetta di escludere con sicurezza la sua destinazione praticofunzionale. (…) Significa questo scacciare dal quadro l’oggetto, la cosa? No. (…) la linea è una cosa che ha un senso pratico-funzionale allo stesso modo di una seggiola, di una fonte, di un coltello, di un libro, ecc. (…) questa cosa è usata come mezzo puramente pittorico, depurata degli altri suoi possibili aspetti, e ciò nella sua pura risonanza interiore.
Quando la linea è liberata dall’obbligo dell’oggetto funge essa stessa da cosaQuando nel quadro una linea viene liberata dall’obbligo di servire a un fine, e cioè di indicare a una cosa, e funge essa stessa da cosa, la sua risonanza interiore non viene più indebolita da alcuna funzione accessoria e conserva, tutta intera, la propria forza. Arriviamo così alla conclusione che la pura astrazione si serve delle cose che hanno una loro esistenza materiale né più né meno del realismo. Tra la massima negazione dell’oggettivo
(contenuto) e la sua massima affermazione, torna a inserirsi il segno dell’uguaglianza perché l’una e l’altra tendono al medesimo fine: la materializzazione di una determinata risonanza interiore.
La linea deve sganciarsi dalla rappresentazione della cosa, se vuole procedere in se stessa con tutta se stessa. Deve astrarsi dal compito di mostrarci come è fatta una cosa secondo il conformismo della nostra percezione visiva.
La linea deve potersi tracciare espressamente nella sua materiale concretezza. Ciò non impedirà di arrivare alla sua risonanza interiore.
Nel servirsi dei soli elementi costitutivi della pittura, per dirla con Rudolf Steiner,
Rudolf Steiner, L’essenza dei colori… pp.94-95
Dietro al suono, dietro al colore, dietro alla formanon si vuole indicare in modo unilaterale che si debba abbandonare la natura o abbandonare la realtà esteriore nell’arte dell’avvenire. Ben lontano da ciò: ci si deve anzi indirizzare ad una unione ancora più intensa col mondo esteriore, un’unione così profonda che non si estenda soltanto a una impressione esteriore del colore, del suono e della forma, ma che arrivi anche fino a quello che si può sperimentare dietro al suono, dietro al colore, dietro alla forma, a quanto cioè si manifesta in colore, in suono e in forma.
La linea (quale elemento autonomo pittorico), per poter pesare con la sua presenza in una composizione, deve empirsi di sé, deve agire su di sé da sé concretamente animata.
La naturalezza della sua natura sta nella naturalità naturale della sua natura. Questa sua natura, inseparabile da ciò che in sé è per sé, ci riporta a quella
«essenza stabile e non relativa» che Platone individuava in tutti gli esseri:
Platone, Opere. Laterza, Roma-Bari 1974, p.11Se, pertanto, né per tutti gli uomini tutti gli esseri sono insieme e sempre allo stesso modo, né ciascuno degli esseri è per ciascuno in un modo particolare, è chiaro che gli stessi esseri hanno una essenza stabile e non relativa a noi, né vengono trascinati da noi in su e in giù secondo la nostra immagine, ma esistono in sé secondo la loro essenza, in conformità alla loro natura (Cratilo, 386 d-e).
Dunque, parafrasando Platone, tutti gli elementi pittorici, secondo Kandinskij, devono avere una essenza stabile e non relativa a noi; devono esistere in sé secondo la loro essenza, in conformità alla loro natura; si deve pervenire all’essenza della loro interiorità, lasciando che essi esistano per se stessi, strutturati come elementi compositivi accomunati alla composizione pittorica senza mancare di conformità alla sua intrinseca struttura.
Ne Il suono giallo di Kandinskij, troviamo inoltre un elenco di variazioni cromatiche che nulla hanno a che vedere con il gioco stereotipo dei colori e delle luci che solitamente si portano in scena.
Se lo stereotipo in scrittura è -per dirla con Roland Barthes-
«la parola ripetuta, al di fuori di ogni magia, di ogni entusiasmo…» allora va detto, riguardo ai colori, che lo stereotipo consiste in quel tipo di colore (primario, o secondario, o terziario) colorato della sua sola tonalità: senza accendersi di altre tonalità, senza dare àdito a cambiamenti di tono.
È un colore che si ripete (senza aggiungere a sé altro da sé) senza andare oltre se stesso, senza divenire pienamente un colore diverso da se stesso.
Ne Il suono giallo, invece, ogni colore vuole accendersi di colorazioni altre da sé. La sua energia cromatica vuole essere narrante, narrare cioè attraverso
il proprio colore la storia di una gamma cromatica che abbia preso tonalità e forma dalla sua contestualizzazione ambientale.
Abbiamo, ad esempio, cinque giganti di un giallo vivo stridente: giallo stridente cioè più acuto e forte che se non fosse stridente, dunque incapace di accordarsi
con un altro colore e, perciò, le dimensioni dei giganti si ingigantiscono ancor più sulla scena, sia perché l’energia luminosa centrifuga del giallo si accentua ancor di più grazie alla sua nota stridente, sia perché tende a contrastare notevolmente qualsiasi altro colore che gli stia di fianco o nei dintorni.
Cosicché la statura emergente dei giganti possa, con il giallo stridente, andare verso lo spettatore e dilatarsi, occupare la scena col movimento centrifugo del giallo, poiché
Il colore freddo si allontanail colore caldo (come è detto ne Lo spirituale nell’arte) si muove sulla superficie verso lo spettatore, quello freddo se ne allontana.
Abbiamo «sulla scena, crepuscolo blu cupo, dapprima sfumato in bianco poi blu cupo intenso». Perché da una tonalità crepuscolare blu cupo, sfumato in bianco, passare a un blu cupo intenso? Per ottenere un maggior contrasto (tra il blu cupo e il blu cupo intenso, ché altrimenti si rischierebbe di non distinguere l’uno dall’altro).
Infatti se il blu «tende ai toni più chiari, a cui è meno adatto, diventa… indifferente e distante, come il cielo altissimo», di contro -contrastatamente- «essendo il blu il colore tipico del cielo», avendo in sé la «vocazione alla profondità», «se è molto scuro dà un’idea di quiete… Ma non come il verde (che… esprime una quiete terrena, soddisfatta), ma con una profondità solenne, ultraterrena».
Quando poi la musica passa ai registri più bassi, allora «nello stesso tempo lo sfondo diventa blu scuro (parallelamente all’incupirsi della musica)», poiché se il blu «precipita nel nero acquista una nota di tristezza
struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine».
Ne Il suono giallo troviamo tutto il campionario dei colori tipici dell’Espressionismo. Abbiamo nei giganti gialli,
giallo vivo stridente
anche se il giallo, come è detto ne Lo spirituale nell’arte, «diventa facilmente acuto», deve qui comunque gridare acutamente e fortemente, deve essere di rafforzamento a se stesso e di contrasto, deve mettersi in connessione (in se stesso) con una tonalità sfacciata che, con vigore e arroganza, si contrapponga violentemente a toni smortati o temperati;
bianco stridente
è un ossimoro.
Perché? perché «il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto». Come dunque farlo gridare acutamente e fortemente, senza che lasci trasparire la sua silenziosa essenza di non-colore, «in cui tutti i colori, come princìpi e sostanze fisiche, sono scomparsi»?
Ecco come: essendo il bianco «un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità», si tratta appunto di far emergere le sue potenzialità, di farle sgorgare, erompere, per renderlo inconciliabile con altri colori.
Un colore stridente inoltre deve avere un timbro cromatico come di cosa o oggetto che ci trasferisca (sul piano emotivo) una vibrazione sonora aspra e dissonante, associata a una risonanza più o meno lunga, quasi a lasciare nella percezione retinica dell’occhio un retrogusto di sonorità cromatica vicina al senso di uno stridore.
Un colore che strida è anche un colore che non si concilia, non si accorda e non si armonizza con un altro colore;
verde accecante, tondo
poiché «la passività è la caratteristica più tipica del verde assoluto», e «poiché il verde assoluto è il colore più calmo che ci sia: non si muove, non esprime
gioia, tristezza, passione, non desidera nulla, non chiede nulla», allora renderlo accecante vuol dire decontestualizzarlo dal suo tipico colore rannicchiato sulla sua immobilità soddisfatta, e ricontestualizzarlo su un tono che non giaccia più inerte né sulla sua quiete né sulla sua indifferenza.
«Non va quindi impallidito aggiungendoci del bianco, né appannato aggiungendoci del nero, occorre violentemente tirarlo fuori da questo suo equilibrio tra stabilità e riposo. Come? Aggiungendoci del giallo:
quando il verde assoluto perde il suo equilibrio, si alza verso il giallo e diventa vivo, gioioso. La mescolanza col giallo gli dà nuova forma»;
un vago colore verde-grigio
vuol dire gettare il verde ancor più a fondo nella sua tipica immobilità con un pizzico di attivismo, poiché
«il grigio è silenzioso e immobile. La sua immobilità, però, è diversa dalla quiete del verde, che è circondata e prodotta da colori attivi. Il grigio è l’immobilità senza speranza. Più diventa scuro, più si accentua la sua desolazione e cresce il suo senso di soffocamento»;
luce gialla opaca
cioè luce di poca luce, calma e apatica sebbene sia gialla.
Poiché il giallo opaco non è reattivo ed è di poco suono, la sua tonalità è sorda, non è tersa, né spiegata né allargata. Luce gialla opaca cioè luce che non si lascia trapassare (alla stessa stregua di un corpo opaco) dalla luce? o luce che abbia in sé incluso una tonalità di giallo che va spegnendosi, che non manda avanti se stessa, che frena la forza propulsiva del giallo, che se ne sta in un chiarore ottuso, chiuso su se stesso?
Kandinskij afferma, ne Lo spirituale nell’arte, che «il giallo, colore tipicamente caldo, assume una sfumatura verde e perde dinamismo in entrambi i sensi (orizzontale e centrifugo) se si tenta di raffreddarlo. Diventa malato e assente, come un uomo pieno di ambizioni e di energie che viene inibito da circostanze esteriori».
Dovremmo forse immaginarci una luce gialla opaca come una luce che dia impulso a un giallo che, raffreddato da una tonalità attutita, perde dinamismo sia in senso orizzontale (essendo opacizzato non è più in grado di spingersi sino allo spettatore) sia in senso centrifugo (non è più in grado di dissipare, espandendosi, la propria energia luminosa)?
Si intende quindi una luce gialla la cui tonalità gialla non abbia più in sé quel «giallo che si allarga dal centro verso l’esterno e si avvicina quasi tangibilmente a chi guarda?»
Bruno sporco, verde sporco, rosso sporco,
Il colore sporco è uno dei colori più usati dagli espressionisti. Ma come si ottiene un colore sporco? mescolando un colore caldo con un colore freddo.
Ad esempio, il rosso cinabro che
«di solito non sopporta niente di freddo; mescolato con colori freddi perde sonorità e significato».
Spegnere un colore caldo in un colore freddo è ottenere un colore sporco, un colore cioè che reagisca come un ferro infuocato immerso (stemperato) nell’acqua;
colore violento
un colore violento, nell’Espressionismo, ha diverse valenze: turba e suscita inquietudine; mette in agitazione e pesta i piedi agli occhi di chi lo guarda;
un colore violento prorompe in tonalità sforzate, fatte sprizzare usando la forza; il colore violento, spremuto con sfrontatezza e assenza di pregiudizi, deve far violenza sia su se stesso sia su altri colori (col divenire persino gestuale). La sua forza cromatica e gestuale deve essere usata a danno di un
altro colore: lo deve o fiaccare o snervare; guastare o farlo agire -a contatto
sia con se stesso sia con altri colori- malamente);
un colore violento può anche apparire violentato da se stesso, o da altro colore, o da un gesto (in quest’ultimo caso devono comparire sul colore, matericamente, le tracce di gesti disdicevoli e declamatori);
un colore violento instilla impressioni che attizzano una commozione ostile;
blu opaco
il blu, andando in profondità ora si allontana dallo spettatore, ora si avvicina al centro concentrandosi su se stesso. Ma se tende al chiaro perde la sua profondità e diviene «meno eloquente, fino a giungere a una quiete silenziosa: il bianco».
fCome immaginarsi allora un blu opaco? Ecco: un blu che non si lasci attraversare dalla profondità, come un corpo opaco alla luce. Un blu che
stia su una tonalità che si chiude su se stessa, senza lasciare che il suo effetto di profondità né si allontani dallo spettatore né si avvicini al suo centro. Il blu opaco si chiude su se stesso, è un colore senza profondità, è corto di interiorità e di movimento che vada da sopra in basso; si dà all’ozio ed è torbido;
blu acceso
il blu è un colore attivo e potenzialmente dinamico, accenderlo vuol dire dunque tirargli fuori il suo dinamismo. Essendo un colore freddo, occorre allora
renderlo ossimoricamente caldo; occorre cioè insufflargli un’azione operosa provvista di vivezza da gettar fuori; deve tenersi ossimoricamente fèrvido.
Sul piano cromatico ogni opera espressionista si serve dell’ossimoro per rendere ancor più acuto il contrasto, la contrapposizione fra un colore e l’altro. Il colore espressionista non cerca pacificazione, non vuole tenersi in toni congeniali al compromesso o alla concordanza: vuole essere impetuoso come il vento, e intrepido, energico e gagliardo come il fuoco.
E l’ossimoro sta proprio nel versàtile, sofistico e sagace accordo di colori discordanti: inscindibilità del contrasto; unisonanza fra colori discordanti; congiunzione fra caldo e freddo, fra luminosità e oscurità.
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