La notte della vita si insinua nell’opera pittorica espressionista con tutti i suoi preliminari: facce che inscenano l’inquietudine di corpi a cui manca la terra sotto i piedi; sguardi informi, fiaccati da un senso di noia, sguardi che non hanno molto da vedere:
Albert Ehrenstein, Tubutsch. Adelphi, Milano 2000, p.11… dinanzi ai miei occhi tutte le differenze si confondono, si fanno per me così infime che negli oggetti all’apparenza tanto disparati altro non riesco a scorgere se non irrilevanti sfumature di un’unica, identica materia… sfumature che caparbie si ripresentano, mentre a cambiare è soltanto la nomenclatura umana.
L’Espressionismo è, metaforicamente, come un intagliatore: sbozza con sgorbie e scalpelli un pezzo di legno a suon di mazzuolo; sgrossa, smussa, modella. La figura viene sbozzata in un pezzo di legno torturato. È stata spezzata e riquadrata; è stata raspata, e la segatura avanzata, impastata con la colla di pesce, è stata usata sulla superficie per suggerire campiture cromatiche a effetto di raschiatura. Tutto ciò perché subentri nella figura la resistenza emotiva di un corpo caduto in una psiche devastata?
Immagini di corpi su cui crolla la carne, su cui il malessere del vivere parla attraverso lo squarcio di un mondo inabile a esser vivo nel presente. Ma qual è la faccia di questo malessere esistenziale? È quella dell’inettitudine, dell’inadattabilità alla luce solare, dell’incapacità a risalire la china, a non ridursi a un nonnulla, a un ammennicolo, a una scarabattola, a una misera irrilevante coserella.
Che cos’è in fondo il corpo per gli occhi di un espressionista? Ecco: un grumo svuotato di forma; un fagotto d’osso depresso e senza carattere, senza neppure il desiderio del «dover esistere».
La vista dell’orrore è informe, l’effetto di bruciatura che i colori ci rimandano è ineliminabile, ci bruciano gli occhi nel guardarli perché son carichi di un dolore che proviene dalle azioni di un ignobile declino sociale: l’Espressionismo si sviluppa prevalentemente dal 1905 al 1925, la prima grande guerra si è dunque non solo fatta presagire ma anche sentire.
L’incedere della morte, l’ingombrante presenza dello strazio, la manifestazione cronicizzata degli uccisi e dei morti uccisi non poteva che suggerire agli espressionisti un’arte furibonda, feroce, sproporzionata, tremenda: l’Io dell’artista scelse di suicidarsi per poter meglio udire dal più profondo lo squarcio provocato dalla sanguinosa stupidità umana.
Nelle opere degli espressionisti la guerra continua a straziare, l’esistente non lascia scampo alla nausea, l’afflizione convoglia su di sé la gravezza di un incubo nauseabondo, abitato da demoni.
Se l’Espressionismo ha esasperato il tormento che gli derivava dalle sue condizioni di vita al limite della visibilità, è perché la generazione che lo concepì fu una
Gottfried Benn, Lo smalto sul nulla. Adelphi, Milano 1992, p.148generazione distrutta al suo primo fiorire della guerra, nella quale molti di loro caddero: Stramm, Stadler, Lichtenstein, Trakl, Marc, Rudi Stephan; di una generazione sulle cui spalle e nei cui cervelli gravavano enormi pesi esistenziali, i pesi dell’ultima generazione di un mondo in gran parte votato al tramonto.
Guardando all’esistente, l’espressionista sa che per rappresentarlo deve spingersi oltre la soglia conoscitiva. Se il reale localizza, circoscrive, delimita la visione del vissuto, l’Espressionismo eccede il definito, rode la visione che determina e circoscrive, il suo occhio interseca quello della ebbrezza interiore, si allarga, dà sfogo alle sue pulsioni primarie, víola e trasmoda il bagaglio del visibile che il reale trascina seco.
Ma… vedere con l’occhio interiore è devastante; la sua ebbrezza interiore matura con il fallimento del proprio Io, più si spinge in dentro e più dipende da una visione esplorativa del vissuto che, coi suoi conflitti, gli demolisce il linguaggio ereditario: e il linguaggio non è più quello ordinato, fatto per descrivere le vicissitudini solo del visibile, ma quello dissonante e ambivalente, atto a riportare con le proprie parole ciò che ne viene dall’esplorazione del visibile e dell’oltre il visibile, linguaggio teso all’acquisizione di parole altre, capaci di far risuonare la tensione mentale e viscerale cagionata dall’aver osservato il mondo anche con l’occhio burrascoso della psiche.
Nell’osservare il mondo con l’occhio burrascoso della psiche, ci si cala nella dimensione della sproporzione:
la dimensione spaziale trasloca da una dimensione proporzionata;
la forma è tutta protesa in un’azione di forza che scardina, che sfratta le proporzioni: decreta per sé figure deformate dal tormento dell’inquietudine.
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