Che cos’è l’Espressionismo?
Storicamente Espressionismo è un movimento culturale europeo circoscrivibile a circa un ventennio che coincide con i primi anni del 1900, inquadrabile nelle cosiddette avanguardie artistiche e sviluppato soprattutto in Germania tra il 1905 e il 1925.
Se ci atteniamo a questa definizione di Wikipedia, in Saggio sopra l’Espressionismo di Gaetano delli Santi troviamo tutto quello che c’è da sapere su questo preciso periodo, con un’analisi in cui nulla viene tralasciato. L’autore entra nei meandri del movimento artistico indagandone le motivazioni, analizzandone le opere, citando fonti letterarie di prosa e poesia, e presentandoci un manuale che si pone come un punto di partenza imprescindibile per tutti gli studiosi della materia.
Saggio sopra l’Espressionismo è tuttavia rivoluzionario in quanto si spinge ben oltre e ci offre uno sguardo allargato portandoci dove mai più avremmo pensato di arrivare.
Cos’è l’Espressionismo? Ancora Wikipedia:
Espressionismo è il termine con il quale si usa definire la propensione di un artista a esaltare, esasperandolo, il lato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente.
La ricerca della «propensione a esasperare il lato emotivo» amplia a dismisura l’orizzonte a cui applicare il termine, facendo entrare in questa «propensione artistica» periodi e artisti anche incredibilmente distanti tra loro, e in questo modo cogliendone l’essenza.
È proprio questa la rivoluzione che opera Saggio sopra l’Espressionismo.
Gaetano delli Santi sapientemente ci fa contaminare dal germe dell’Espressionismo presente nel Romanticismo, nel Liberty, nella parola di Dante, in tutte quelle espressioni dell’arte e della letteratura che abbiano intenzionalmente messo da parte la forma classica, l’estetica del Bello, per rivolgersi alla ricerca di un’esperienza formale in grado di comunicare l’emozione, in ogni caso aderente al contenuto.
Non interessa a Gaetano delli Santi quale opera è stata fatta prima, né l’evoluzione dello stile per costruire effimere cronologie; la sua analisi è estremamente lucida e sempre sostenuta da una scrittura che si fa permeabile al contenuto, osmotica, pronta a diventare apollinea o dionisiaca quando il testo lo richiede, pronta ad essere grande prosa che non teme di confrontarsi con la enorme quantità di testi citati: brani di letteratura e di poesia (una vera antologia di testi espressionisti, ottimo punto di partenza per approfondimenti) ma anche testi di critica, di filosofia, sociologia, psicologia, scienza, storia.
Solo la formidabile cultura di Gaetano delli Santi permette di riunire una massa di materiali tanto eterogenei in un testo organicamente strutturato con precisione e naturalezza: l’accostamento dapprima appare spregiudicato poi si rivela evidente.
E in questo mare magnum di materiali ogni tema si dipana con sicurezza senza disperdersi in rivoli inutili al fine ultimo.
Leggere Saggio sopra l’Espressionismo è un po’ come percorrere le montagne
russe della conoscenza, con salite lente che chiedono tutte le nostre risorse di attenzione, ripagate dalla vertigine di tuffi verticali nel mare della comprensione.
Perché tanto materiale? perché tante citazioni?
Perché la visione proposta è omnicomprensiva e parte dalla consapevolezza che l’artista non vive in una scatola chiusa che lo protegge dagli influssi del mondo e che la critica d’arte si fa partendo dalla storia prima ancora che dall’arte.
L’arte vive di debiti e crediti. L’artista vive immerso nel mondo.
Anzi, l’artista, proprio in quanto artista, percepisce la contaminazione
del mondo più di chiunque altro.
Le scoperte della scienza, le ideologie, i rivolgimenti politici, le guerre, la natura, influiscono sull’artista che assorbe come una spugna, soffre, ammira, subisce e interpreta il proprio tempo, così come i linguaggi di pittura, poesia, musica, letteratura, scultura, architettura, teatro, danza, partecipano attivamente del proprio tempo, e si influenzano a tal punto che è impossibile capire un’opera senza avere un chiaro quadro di insieme.
La storia fornisce i contenuti che le arti interpretano, avvalorano o rifiutano: così la pittura si confronta con la poesia, la poesia con la musica, la musica con la pittura, la pittura e la musica con la danza e il teatro e così via, in un’osmosi che non ha fine.
Mai questo fu tanto vero poi quanto per il periodo dell’Espressionismo storico, un’epoca in cui tutte le arti hanno dialogato per rinnovare il loro linguaggio.
Gaetano delli Santi con Saggio sopra l’Espressionismo ci sprona a colpi di frusta concettuali a comprendere la complessità di questo magma: l’autore indaga i rapporti degli artisti col mondo che li circonda e ribadisce che da lì bisogna partire per studiare e criticare l’arte, altrimenti resteremmo sempre solo in superficie.
E questo incessante carotaggio è sostenuto da una prosa che, ben lungi dall’essere intellettualistica e asettica disquisizione, assume la forma della materia trattata, diventa uniforme sui temi del Bello, essenziale per il razionalismo del Bauhaus, carica e ctònia per la forma espressionista.
La scrittura di Gaetano delli Santi non scade mai nel didascalico, ma accompagna il ragionamento; non è mai banale, sempre attenta al significante, al suono, e al significato della parola, e al tempo stesso sempre precisa nei suoi intenti e densa di contenuti, senza mai cadere in un vuoto esercizio di stile.
Questo saggio rivoluzionario è idealmente composto di due parti, una di distruzione e una di costruzione.
Nella pars destruens delli Santi smonta in modo sistematico e con grande intelligenza i luoghi comuni sull’arte che impediscono di cogliere la dirompente novità estetica dell’Espressionismo.
La pars construens opera invece un’analisi delle infinite sfaccettature della realtà espressionista attraverso un approccio caleidoscopico, proprio come l’Espressionismo, e rifugge ogni schema precostituito.
I temi di distruzione e costruzione vengono fusi -ma non confusi- all’interno dei singoli capitoli grazie a un meticoloso lavoro di rimandi e collegamenti.
Ad esempio, il tema del «corpo espressionista» viene affrontato in diversi paragrafi non come problematica a sé stante, ma con riferimento ad altri temi quali l’uso del colore, il paesaggio, il Grottesco.
Questa operazione è funzionale a comprendere come sia trattato l’argomento «corpo» nell’Espressionismo.
Esso viene affrontato con precisione chirurgica in un capitolo dedicato (Nel corpo espressionista non v’è asservimento all’anatomia), ma non resta isolato.
L’autore lo sviluppa in modo organico anche in altri capitoli, lasciando però la questione aperta a nuove analisi e a prospettive ulteriori. In particolare si introduce il problema de «la forma imperfetta», che porterà al tocco.
Nell’Espressionismo ciò che conta non è il gusto personale del bello o del brutto.
Il Bello/Apollineo e il Brutto/Dionisiaco sono categorie analizzate secondo una discriminante esatta: la linea.
La natura della linea non consente mezze misure: la linea o è diritta
o è storta.
Poiché è la linea il metro di giudizio, l’espressionista si rifà necessariamente a categorie che appartengono all’infanzia, nella quale una cosa è solo bella o brutta, diritta o storta, vera o falsa, senza tutte quelle zone intermedie che gli adulti istituiscono per giustificare le proprie azioni e dissimulare i propri giudizi.
Per i bambini non c’è grigio tra il bianco e il nero, non ci sono mediazioni né gradazioni.
Secondo la metafora della linea, che cos’è il Bello?
Il Bello è la linea diritta e tutto ciò che essa comporta.
Il Bello è regolarità poiché la linea diritta e pulita costruisce superfici estese in cui si dispongono oggetti in modo ordinato, all’interno di uno spazio misurabile.
La linea diritta è al servizio della prospettiva che costruisce uno spazio cubico in cui l’uomo può proiettarvi l’idea di se stesso, un essere senziente e razionale, capace di grandi azioni parimenti ordinatrici.
La prospettiva, grande invenzione del Quattrocento fiorentino, appartiene dunque al Bello, mentre altre forme spaziali che esprimono una visione dipendente dalla linea sinuosa, appartengono al Brutto.
La prospettiva è la forma simbolica dello spazio, non è lo spazio stesso, e la forma simbolica simbolizza ciò di cui lo spirito del tempo ha necessità: il Quattrocento fiorentino così come il Settecento illuminista e neoclassico avevano bisogno di rappresentare ordine e sicurezza e hanno assunto linee diritte e prospettive che ben ordinavano lo spazio.
Secondo la metafora della linea, che cos’è il Brutto?
Il Brutto è la linea sinuosa che schiude le porte a un regno privo di ordine.
La linea sinuosa è l’esatto opposto della linea retta che costruisce angoli perfetti e superfici misurabili.
La linea sinuosa crea arabeschi fantasiosi per uno spazio in cui l’uomo ordinatore non può porre se stesso.
Così nel regno del Brutto rientrano il primitivo, la natura naturale, il selvaggio, la prospettiva inversa e la mancanza di prospettiva.
Il primitivo (le maschere africane o l’arte cinese e giapponese) non usa la linea retta come vangelo, non ordina e non regolarizza, quantomeno non secondo gli schemi culturali dell’uomo europeo.
Che dire della natura posta sotto la categoria del Brutto?
La natura allo stato naturale essendo sempre in movimento non è ordinata, non ha linee diritte, non offre prospettive geometriche fisse.
La natura è imprevedibile, rivela istinti crudeli dove vige la legge del più forte, quegli istinti che l’uomo del mondo ordinato pensa di aver sopito e vinto, e che invece escono sempre più prepotenti a sorprenderlo anche se egli li maschera di categorie.
Così furono le grandi guerre, sfogo di impulsi primordiali mascherati da
intento ordinatore. In natura, gli animali si mangiano a vicenda, le piante si
soffocano alla disperata ricerca di spazio, gli elementi atmosferici sconvolgono ciò che loro stessi hanno contribuito a crescere e ricreano di nuovo in un fluire tanto inesplicabile quanto crudele.
Nella percezione di questa crudeltà si cela il sentimento del Sublime che
sconvolge ed eleva l’animo umano.
Dunque, non è certo il giardino all’italiana, ben controllato con sculture vegetali potate regolarmente e specchi d’acqua geometrici, a generare il sentimento emblema del Romanticismo, ma la natura naturale prima che diventasse giardino formale ordinato le cui linee diritte non ispirano per nulla un sentimento vertiginoso, intenso e conturbante.
Quando la linea è la discriminante, nella categoria del Brutto entrano movimenti artistici insospettabili, i quali hanno seguito lo scatto utopico del dar forma all’immaginazione, lasciando le porte aperte a un forte misticismo.
Così il Barocco, epoca religiosamente tormentata e culturalmente in crisi per l’imprevista estensione geografica e la perdita della centralità astronomica terrestre. Il Barocco affronta il disagio di un mondo allargato e ribaltato affidandosi alla linea curva, creando spazi complessi che confondono la prospettiva e negano la geometria euclidèa.
Così il Gotico, epoca di Dio, età mistica che non conosce linea diritta e non conosce prospettiva; ma conosce il tormento e l’estasi della linea curva, della parola irregolare e contorta, dell’urlo disperato e irrazionale di santi e predicatori.
Così il Liberty, che cerca di sfuggire ai rigori geometrici neoclassici aggrappandosi alla forza propulsiva delle forme organiche.
Così l’icona bizantina, costruita sulle linee indecifrabili della prospettiva inversa.
La prospettiva inversa non è interessata allo spazio e la definizione di «prospettiva» è una spiacevole contraddizione. Usare dei termini impropri per indicare orientamenti e linguaggi artistici significherebbe implicitamente attribuire ad essi delle funzioni che non hanno affatto.
La prospettiva delle icone non è inversa e proprio non esiste perché il fine dell’iconografo è quello di raffigurare persone e oggetti, non il loro posizionamento nello spazio.
Il non-spazio iconico esprime in potenza un mondo che ancora non è, oppure è già stato nell’idea divina.
«È la visione mistica che va al contrario» scrive Gaetano delli Santi a pagina 138.
E restiamo sorpresi nello scoprire quanta affinità ci sia con un pittore espressionista come Emil Nolde.
Nei paesaggi di Nolde, assistiamo a una sorta di mondo alla rovescia: i cieli spesso si incendiano di cupaggine, avvampano di tinte tetre e taciturne, mentre in basso (nella nuda terra abitata da un acciarpamento di vegetali, o nel mare tutto in spuma e ribollío) i colori fríggono in una gamma di colori carichi di tonalità accese, piene di forti colorazioni.
Non è il mistico che vede le sue visioni sempre da un’ottica rovesciata?
Nulla avviene per caso. Anche la mancanza di prospettiva delle Avanguardie è figlia della linea contorta e spezzata che concerne al Brutto, ma anche questa è una definizione scorretta.
Dire che un quadro «manca di prospettiva» sottintende il fatto che la dovrebbe avere, ma la raffigurazione dello spazio in un’opera non deve assurgere a criterio estetico universale, in quanto fa parte della contingenza e non della necessità.
Pertanto la parola «prospettiva» non deve proprio essere nominata quando in un’opera la prospettiva è altra da sé, perché quell’opera è concepita secondo altri principi e il fruitore può criticarla secondo quei medesimi principi, non secondo le proprie aspettative.
Riassumendo: sul piano emozionale il Bello è il controllo della passione, l’Apollineo; il Brutto è la passione stessa, il Dionisiaco.
Le espressioni umane più forti appartengono al regno del Brutto. L’Urlo di Munch è più sconvolgente del Bacio di Hayez. Il lieto fine è privo di pathos, non crea storia, non dona altre emozioni che un senso di gratificazione.
Per questo l’Espressionismo «è tossico», scrive Gaetano delli Santi a pagina 139, e la parola poetica espressionista
non vede il mondo sotto un aspetto miracoloso, non ci descrive più stati d’animo idilliaci, ma visioni che si svuotano del Bello (…). L’immagine poetica espressionista è carica e feroce, è fortemente rabbiosa, è zeppa di materia visivamente compressa in pura energia eversiva tanto quanto basta a esploderci in faccia.
L’Apollineo controlla tutto affinché la perfetta superficie non si incrini; il Dionisiaco entra con la sua linea contorta nella profondità della superficie, scava all’interno per portare all’esterno.
Il Bello neoclassico incarnava i valori della civiltà greca idealizzata.
L’architetto espressionista Eric Mendelsohn invece si rifiuta di pensare proiezioni idealistiche: i suoi edifici sono pensati e realizzati in funzione della realtà umana.
Scrive Gaetano delli Santi a pagina 213:
In Erich Mendelsohn infatti l’architettura nasce dalla equipollenza fra ciò che ha deformato e alleggerito la massa muraria dell’edificio, e ciò che si spinge a tracciare tecnologicamente una mappa per una fruizione socialmente utile. La forma estetica s’incàrdina in un’energia di matrice utopistica, è eticamente legata alla funzionalità, concepita ideologicamente per un fine specifico al servizio della comunità fruitrice.
Siamo così al nocciolo della questione: il Bello non ama lo scavo; il Brutto scava all’interno e porta fuori ciò che sta dentro, senza idealizzare.
Ecco, l’Espressionismo, tutti gli Espressionismi, hanno sempre disturbato l’estetica della sensibilità idealizzante che preferisce la sterilizzata sicurezza del mondo apollineo.
È all’inquietudine che dobbiamo le migliori opere d’arte, un’inquietudine emozionale.
L’artista folle viene catalogato come folle quando le sue creazioni sono talmente complesse e altre da non essere comprese.
L’artista inquieto che riconosce il dramma dell’esistenza finisce nel regno del dolore, nel regno del Brutto.
Quale società può auspicare che i singoli abbiamo coscienza critica?
I regimi totalitari sono per il potere assumendo l’estetica neoclassica e quelli massificati cercano la semplificazione, la serenità, la consolazione per favorire il consumo. Essi navigano dunque nel citazionismo del regno del Bello e tendono a istituzionalizzarlo per rappresentarsi.
La concezione del Bello è uno dei fondamenti della società attuale, basata proprio sulla semplificazione banalizzante del reale. La stessa che ha provocato l’erronea valutazione della civiltà greca da parte della cultura neoclassica, che in quella società ha visto il massimo della civilizzazione.
Purtroppo il Neoclassicismo ha fondato se stesso su una menzogna, perché tutto ciò che non era armonico, che creava imbarazzo (come le pitture licenziose di Pompei, i mostri dell’arte protocorinzia, gli stessi riti dionisiaci), è stato occultato, espunto, espulso come «orientale», non greco, perché l’arte greca doveva corrispondere in toto al modello che il Neoclassicismo aveva creato per se stesso. L’idea di un Bello fine a se stesso, quello degli spot pubblicitari, nega l’invecchiamento, il dolore e la morte.
Quanto è difficile per noi oggi capire l’Espressionismo, un movimento che non è possibile staccare dalla guerra, dal dolore, dalle disillusioni, dalle aberrazioni della società industriale, dalla protesta sociale?
Capire l’Espressionismo significa penetrare a fondo in questa problematica.
In questo volume non si vuole fare una apologia del Brutto fine a se stesso né una condanna del Bello in sé.
Il vero problema sta nell’istituzionalizzazione e nella strumentalizzazione dei concetti. Il Bello neoclassico è rimasto nell’immaginario collettivo come l’unica forma d’arte ammissibile.
Il Bello è adatto all’ordine euclidèo, il Brutto è adatto al non-ordine.
Non bisogna stabilire moralisticamente cosa sia negativo o positivo: quanto cogliere criticamente che ogni espressione artistica si colloca nello spirito del tempo.
L’Espressionismo ha attinto al regno del Brutto per interpretare lo spirito del proprio tempo, spirito tormentato dalle guerre e dalle lacerazioni della società civile: l’Espressionismo ha bisogno del Brutto perché non accetta la proiezione menzognera di un mondo perfetto all’interno del quale l’uomo possa ammirare se stesso, ma vuole andare in profondità, oltre la superficie, e penetrare la molteplicità del reale.
Cosa che è possibile solo grazie al Brutto.
Questa è la più chiara dimostrazione della falsità di una delle più grandi convinzioni della nostra società, cioè che l’arte sia comprensibile a tutti d’istinto. L’arte non è istintiva, non si produce «di pancia» e non si consuma.
L’arte è opera dell’intelletto, azione sofferta, complessa, meditata.
È una visione, quella di Gaetano delli Santi, che va alla ricerca dell’essenzialità degli aspetti formativi dell’arte leggendoli per quello che sono, e non per farne delle etichette. Uscire dalle etichette e guardare senza i preconcetti dell’abitudine è una grande lezione che non dovrebbe mai essere dimenticata da chiunque faccia arte.
Se per fare qualsivoglia operazione (artistica e non) occorrono pensiero critico
e tecnica che seguano regole adeguate, ciò non preclude una riformulazione delle regole stesse, come nel caso dell’Espressionismo, che alla base della sua poetica pone il rifiuto incondizionato di diventare esso stesso regola.
Di conseguenza, siamo alla contraddizione delle tradizionali categorie di giudizio per focalizzare la comprensione della necessità interiore dell’artista.
Per usare le parole di Pareyson (Estetica Teoria della formatività, Bompiani, 1988, pp.59-60), l’artista segue la propria spiritualità concretamente determinata e la legge interna dell’opera d’arte, il «fare che mentre fa inventa il modo di fare». Nell’opera entrano così l’intera persona dell’artista e il suo proprio originale modo di formare, si coniugano i concetti di «legge e libertà, norma e avventura, necessità e contingenza, legalità e scelta, regola e incertezza» e l’opera viene fatta nell’«unico modo in cui il da farsi può essere fatto e il modo in cui lo si deve fare» (cfr. ibidem).
Saggio sopra l’Espressionismo mira al superamento delle effimere cronologie e dei generi e degli stili analizzati a compartimenti stagni, come nella poesia universale progressiva romantica; guarda all’unità fondamentale tra forma e contenuto, tra Bello e Brutto, ovvero tra tutti gli opposti; fornisce degli strumenti di analisi critica altra senza pretendere che l’Arte debba essere comprensibile a tutti.
Patrizia Mugnano
Alice Pareyson